UBU KROL [SubITA]

Titolo originale: Ubu król
Paese di produzione: Polonia
Anno: 2003
Durata: 90 min.
Genere: Commedia, Drammatico, Grottesco, Visionario
Regia: Piotr Szulkin

Una grottesca shakespeariana del Re Ubu che al potere in modo sanguinoso. Quando le sue riforme assurde falliscono e il tesoro si svuota, Ubu e i suoi adulatori iniziano ad attuare il in tutto il paese.

Difficile, davvero difficile non confrontarsi, alla fine, con il cinema di Piotr Szulkin, e la difficoltà deriva giusto dal fatto che, per quanto snobbato nell’aperte le virgolette Bel chiuse le virgolette Paese, il polacco, negli anni Ottanti, ha sfornato veri e propri macigni cinematografici come Golem (Polonia, 1980, 92′) o, il mio preferito, O-bi, o-ba: Koniec cywilizacji (Polonia, 1985, 88′), una misantropica pellicola sulla fine del mondo. Questo, come si è detto, negli anni Ottanta. Ora Szulkin sembra cambiato, e per certi versi questo Ubu król (Polonia, 2003, 90′) ne è la dimostrazione, ma è tutta apparenza. Certo, Ubu król può essere inteso come la deriva di Piotr Szulkin, a patto, però, che «deriva» venga qui inteso nella sua accezione più genuina, intercalata cioè in quella poetica del distopico cui il regista, negli anni, ci ha abituati; in questo senso la deriva è tanto intima e intrinseca nella cinematografica di Szulkin quanto necessaria nella sua poetica, sì che sarebbe parso davvero strano che Szulkin stesso non subisse, prima o poi, questa deriva: di più, retroattivamente i suoi lavori sarebbero sembrati alquanto disonesti.

E invece no. Szulkin mette in scena l’ennesima fine del  o, meglio, disegna un prodromo della fine, il precipizio che sgorga nel vuoto, e lo fa con estrema grazia e grande onestà intellettuale, rinvenendo nel Fellini di Amarcord (Italia, 1973, 123′) e nel Kusturica di  (Jugoslavia, 1995, 157′) i propri padri putativi. Il risultato è un coacervo di idee, movimenti danzerecci che rimandano direttamente a Miklós Jancsó, grida, alcool, guerre che più che veri e propri combattimenti hanno più il gusto di quelle rivisitazione che vanno tanto di moda negli States, puttane, celerini fascistoidi, cibi marci, bambine vestite di bianco e via dicendo che non si espande ma si allarga fino ai bordi dello schermo, fino all’implosione inscenata in quello che, a parere del sottoscritto, è uno dei finali più geniali, irriverenti, caustici di sempre.

Ciò che precede quest’implosione è un flusso continuo di micro-esplosioni, per dir così: settato in un paese fastosamente e festosamente in rovina, Ubu król, pur configurandosi alla stregua di un film corale, segue le vicende di un certo Ubu, convinto dalla moglie, una trasfigurazione di Lady MacBeth, a impossessarsi del potere, cosa che tenterà di fare promettendo ai cittadini un futuro ricco di birra e di cibo schifoso («shrite», vocabolo che a quanto risulta indica al contempo l’alimento e l’escremento) in un’utopia comunista che, nata schizofrenica, non tarderà a dissolversi, rinnovando così una fine che ciclicamente si ripresenta e ciclicamente dà avvio a nuovi corsi e a nuovi inizi, cioè a futuri(bili) tramonti. Pirotecnico, allucinante ed allucinato, dissacratore e cazzuto come pochi, Ubu król è sostanzialmente questo, ovvero qualcosa che eccede e si eccede, evade e si evade e fa di quest’evasione un’eversione rispetto a se stesso. Rispetto a cosa? Rispetto alla fine che repentinamente Szulkin eccede nel tentativo di evaderla.

emergeredelpossibile.blogspot.com

 

 

 

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