Titolo originale: Wai dor lei ah yat ho
Paese di produzione: Hong Kong
Anno: 2010
Durata: 96 min.
Genere: Horror
Regia: Ho-Cheung Pang
Pang Ho-cheung torna sul palco del Teatro Nuovo Giovanni da Udine al Far East con Dream Home, uno slasher movie iperviolento, politico e scomodissimo, al punto che verrà rimaneggiato dalla censura cinese. Un’opera non perfettamente compiuta ma estremamente coraggiosa.
La casa è un diritto?
La forsennata corsa a ostacoli di una giovane donna capace di tutto pur di ottenere la casa dei suoi sogni (con vista mare). Il film è anche un omaggio, solenne e allo stesso tempo psicotico, alla città di Hong Kong, ai suoi palazzi, alle sue case, ai suoi appartamenti minuscoli destinati a rimanere per molti giovani single mete irraggiungibili visti i prezzi altissimi di tutto il settore immobiliare! [sinossi]
La serata inaugurale della dodicesima edizione del Far East Film Festival ha permesso agli spettatori assiepati nella splendida cornice del Teatro Nuovo Giovanni da Udine di confrontarsi con due facce, tra loro estremamente distanti, della cinematografia contemporanea in lingua cinese. Prima è avvenuto lo scontro con il mediocre Sophie’s Revenge di Eva Jin, sorta di scialbo mix tra Nora Ephron e Garry Marshall in mandarino, quindi (quando l’ora si è fatta più tarda) è stata la volta di Dream Home, nuovo parto creativo di Pang Ho-cheung.
Pang non è certo un nome sconosciuto per i fedelissimi della kermesse friulana, visto e considerato come le sue opere hanno trovato spazio sugli schermi del festival fin dall’esordio Men Suddenly in Black, ma forse in pochi si sarebbero dimostrati talmente lungimiranti da prevedere l’improvviso scarto che la sua filmografia ha compiuto con Dream Home. Un vero e proprio triplice salto mortale, a essere onesti. Non che lo schizofrenico enfant prodige della città-stato avesse in passato lanciato segnali in qualche tipo riconducibili a una pur minima accettazione della prassi cinematografica, saltellando allegramente da un genere all’altro, dalla commedia demenziale (il beffardo AV, in cui un gruppo di adolescenti provava a cucirsi addosso il ruolo di produttori di materiale pornografico) al dramma intimista (l’ottimo Isabella), dalla rom-com (Beyond Our Ken, probabilmente l’apice del suo percorso autoriale) al thriller filosofico dalle ambizioni spropositate (l’incompiuto e faticoso Exodus, al quale va però riconosciuto uno degli incipit più folgoranti dell’ultimo decennio), ma l’impatto con Dream Home rischia di essere fatale anche al cinefilo più scafato. Semplificando la materia, si potrebbe ridurre il tutto a un’improvvisa e inaspettata incursione nello slasher movie: nella sua forma più basica, infatti, il film è “solo” l’esasperato resoconto di una folle notte di massacro in due appartamenti di Hong Kong. Nell’allargare difatti la visuale, passando dal particolare all’universale, ci si rende immediatamente contocome l’intento di Pang sia quello di tradurre la folle furia omicida della signora Cheng, che ha sacrificato l’intera esistenza al sogno di potersi permettere una casa con vista sull’oceano, in una metafora dal denso contenuto politico della tragica realtà abitativa in quel di Hong Kong.
Fin dalle prime scritte su sfondo nero il giovane cineasta rende edotti i propri astanti di una situazione ai limiti dell’invivibile, con una ampia fetta della popolazione che non sarà mai in grado di poter ambire all’acquisto di un appartamento: una crisi che appare irreversibile, e che si è acuita con l’hangover del 1997, vale a dire il momento in cui per il “Porto dei fiori” finì l’era del protettorato britannico, tornando integralmente in mano al potere cinese. E da principio il film sembra cogliere in maniera eccellente nel segno, con i palazzi/alveare che sovrastano letteralmente gli esseri umani, fagocitando di fatto le inquadrature e vampirizzandole: un tema che purtroppo Pang abbandona con troppa facilità, affascinato da un lato dalla chiave prettamente grandguignolesca della vicenda, e dall’altro da un’esplicazione fin troppo marcata della vita della protagonista. Ed è proprio qui la falla di un film per il resto decisamente interessante: nella foga di ricostruire l’evoluzione psicologica della donna (interpretata da un’ottima Josie Ho, che regala una performance anaffettiva e sofferta), elaborando una struttura a puzzle, in cui i flashback giocano un ruolo fondamentale per quanto eccessivamente marcato, Pang finisce per perdere di vista l’aspetto più umorale della vicenda narrata. Perché è nella sua componente splatter che Dream Home si gioca le sue carte migliori: da un punto di vista strettamente di “genere”, l’opera di Pang è pressoché inattaccabile, capace di divertirsi senza mai perdere di vista l’obiettivo primario, quello di scioccare completamente il pubblico.
La mostra delle atrocità con cui il regista omaggia gli spettatori, ha davvero pochi eguali: dita mozzate, corpi sventrati, donne incinte soffocate, sono alcuni degli elementi che marchiano a fuoco l’immaginario incubale contemporaneo, inserendosi a forza in un contesto in cui da tempo si cercava nuova linfa vitale. Resta dunque il rimpianto per un’opera che, seguendo una linea meno tortuosa e puntando (almeno in partenza) verso vette troppo alte, avrebbe davvero potuto sconvolgere i piani preordinati. Di quando in quando, in parte, vi riesce; forse vale la pena accontentarsi…
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