
Titolo originale: By the Throat
Paese di produzione: Belgio, Israele
Anno: 2021
Durata: 78 min
Genere: Documentario, Sperimentale,
Regia: Amir Borenstein, Effi Weiss
Sinossi:
Attraverso l’analisi del linguaggio e della voce, By the Throat esplora come l’identità possa essere controllata, giudicata o distorta dal suono stesso. Il film indaga i confini invisibili che separano gli individui in base alla lingua e all’accento, mostrando come il modo di parlare diventi uno strumento di inclusione o esclusione, appartenenza o sospetto.
Ci sono film che ascoltano. E poi ci sono film che auscultano — che ti mettono lo stetoscopio nell’anima e amplificano il suono della tua identità fino a renderlo un campo di battaglia. By the Throat appartiene a questa seconda categoria: un documentario mutante, anatomico, che seziona il linguaggio per mostrarci la sua carne più viva, quella che vibra di potere, paura e appartenenza.
Amir Borenstein ed Effi Weiss non girano un semplice saggio filmico, ma un rito fonetico-politico. La loro macchina da presa diventa una sorta di otoscopio cosmico, che penetra il corpo invisibile della voce umana, scavando tra fonemi e inflessioni come un archeologo del suono. Tutto ciò che pronunciamo — una sillaba, un accento, un respiro — diventa un indizio di colpa, un lasciapassare o una condanna.
Il film non parla: sussurra, soffia, balbetta, urla, costringendoci a misurare la distanza tra il dire e l’essere.
L’opera si muove tra scienza e misticismo, tra esperimenti biometrici e confessioni intime, evocando i fantasmi del controllo moderno. È come se Orwell avesse riscritto la Torre di Babele, usando microfoni direzionali e scanner vocali invece delle telecamere del Grande Fratello. Ogni voce analizzata è un frammento di un incantesimo spezzato, un DNA sonoro che tradisce la nostra provenienza, il nostro passato, la nostra cultura.
E proprio in questo riconoscimento — in questa identificazione forzata — risiede la tragedia: la voce, che dovrebbe liberarci, diventa la nostra prigione.
C’è qualcosa di esoterico in questa ossessione per la voce. Come nei misteri orfici, il linguaggio è potere sacro e maledizione insieme. L’atto del parlare è un rito di appartenenza, ma anche un tradimento del silenzio primordiale da cui veniamo. By the Throat lo sa, e si insinua come un virus nel tessuto stesso della comunicazione, corrodendone le certezze.
A livello visivo, il film è ipnotico: microscopi, sonogrammi, dettagli epidermici, sequenze astratte che ricordano i film scientifici di Jean Painlevé e l’ascetismo visivo di Godard periodo Histoire(s) du cinéma. La voce si fa immagine, il suono diventa corpo, e il corpo si dissolve nel rumore bianco dell’identità.
Nel mondo di By the Throat, non esiste più il concetto di lingua madre: esistono solo accenti come cicatrici, tracce di guerre culturali mai finite. Ogni parola è un campo minato. Ogni inflessione, un test del sangue.
E mentre lo spettatore ascolta, si accorge di essere anch’egli osservato, schedato, giudicato dal modo in cui comprende.
È un’esperienza che inquieta e illumina, come guardare la propria ombra parlare al posto tuo.
In fondo, il film suggerisce che non si può davvero nascondere chi siamo: anche il silenzio ha un suono.
E quel suono, quando il mondo decide di ascoltarlo, può diventare una sentenza.
