BERBERIAN SOUND STUDIO [SubITA]

Titolo originale: Berberian Sound Studio
Nazionalità: UK
Anno: 2012
Genere: Drammatico, Thriller
Durata: 92 min.
Regia: Peter Strickland

Toby Jones è qui in BSS un tecnico del britannico che arriva in uno studio, un sound studio italiano per lavorare al missaggio e all’editing sonoro per una pellicola definibile a essere gentili di serie B.

Film atteso quello scritto e diretto da Peter Strickland, che Sight & Sound ha implicitamente osannato, inserendolo tra i 10 film migliori di questo 2012. Verdetti a parte, siamo di fronte ad una pellicola che dividerà senza ombra di dubbio. Opera su cui grava un discreto fardello, presentato com’è quale omaggio al cinema dei Fulci, dei Bava, dei Margheriti ed altri dell’intensa annata dell’horror made in Italy.

Omaggio tutt’altro che velato, anzi. Il film di Strickland ci porta direttamente all’interno di quel mondo, scegliendolo quale unica sede di questo suo dramma a tinte horror: d’altronde lo stesso regista ritiene che non ci fosse palcoscenico migliore per ambientare la sua storia.

Berberian Sound Studio non è un film facile. La sua è tuttavia una complessità voluta, disperatamente cercata e a tratti pure ostentata. Roso da tale ambizione, in più di un’occasione il tutto rischia pericolosamente di accartocciarsi, perdendosi e perdendoci.

Buona parte del film si svolge all’interno di un quanto mai claustrofobico studio di registrazione audio. Come già accennato, siamo negli anni degli artigiani degli horror, tra artisti e mestieranti che imboccavano l’affascinate sentiero del cinema. Gilderoy (ottimo e azzeccato Toby Jones) è un tecnico del che approda a Roma per lavorare con uno dei registi di genere del momento, Giancarlo Santini. La sua indole introversa mal si sposa con un ambiente cinico, spietato, fatto di imbroglioni e ciarlatani. Lui è lì solo per portare a termine il proprio lavoro.

Non appena viene delineato il contesto, l’unica cosa che ci resta da fare è aspettare. Strickland ci conduce nei meandri di un mondo che non c’è più, e che di tangibile ha poco. Quello della produzione di certi film, per come ce lo presenta il regista britannico, è soprattutto uno stato mentale.

Il nostro disorientamento è il medesimo che sperimenta l’innocente Gildroy, il quale si trova sempre più in balia di un mostro del quale non riesce a scorgere le fattezze. Per buona parte di Berberian Sound Studio le immagini vengono prestate al suono, rispetto al quale si trovano subordinate. Non vediamo mai nemmeno una sequenza del film del quale in quella sala si stanno registrando effetti sonori e doppiaggi, di cui però ci viene dato di percepire la rozzezza e la sua sfrontata ossessione nel voler sperimentare.

Urla contorte, rumori e suoni inquietanti riprodotti come un tempo, quando anche questa era una vera e propria arte. Ironicamente ci verrebbe da dire che per tre quarti di film a farla da padrone siano frutta e ortaggi, sminuzzati, spiaccicati a terra, finanche cucinati. E non è così agevole descrivere l’effetto di un’anguria letteralmente martoriata, sapendo che il relativo rimanda ad una sorta di squartamento.

Berberian Sound Studio non fa altro che giocare con simili misure audiovisive dall’inizio alla fine, stirando in alcuni tratti un po’ più del dovuto la verve umoristica di cui certe scene vengono molto velatamente intrise. Lento, in alcuni frangenti pesante, il film di Strickland dichiara il proprio amore per quel cinema lì servendosi del trucco più vecchio del mondo: mettere tutto sotto gli occhi di chi guarda, senza affannarsi a celare alcunché.

Il risultato è che per avere qualche possibilità l’unica sia quella di abbracciare totalmente l’ansia e lo smarrimento crescente di Gildroy. Se lo spettatore, come il protagonista, non avverte quella stessa asfissia, se non riesce a sentirsi in qualche modo intrappolato, senza apparente via di scampo, allora tutto sarà vano. Cinema che interagisce in maniera quanto mai diretta con chi vi assiste, aspettandosi da quest’ultimo che si presti al gioco. Perché questa pellicola non si limita al semplice citazionismo a buon mercato, bensì appronta una pregevole operazione metacinematogtafica, risucchiando in maniera letterale lo spettatore. Come spiegare diversamente la sequenza in cui Gildroy vede sè stesso proiettato su uno schermo, mentre le immagini descrivono esattamente ciò che ha fatto fino a pochi minuti prima?

Bisogna ammettere che in questo suo passaggio, che è poi un’impennata, da un tenore oseremmo dire straziante (per quanto poco invoglia alla visione) ad uno decisamente visionario, Berberian Sound Studio rischia pericolosamente di incepparsi; probabilmente riuscendoci pure. La dimensione atemporale, unita ad una cornice spaziale reiterata e spiazzante, contribuiscono in maniera determinante ad un’atmosfera onirica nella quale è possibile solo perdersi. Un percorso molto sottile, che conduce gradualmente verso uno strana ambientazione, in cui diviene pressoché arduo distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è.

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Il finale criptico raccoglie la propria roba, disseminata lungo i quasi 90 minuti nei quali si risolve, e si congeda nello stesso punto in cui ha avuto inizio. Quel che rimane è essenzialmente un’esperienza, forte, comprensibilmente indigesta a molti – come può esserlo un Mulholland Drive, del quale eredita certe stravaganze senza però avvicinarsi alle vette toccate da Lynch. Ma che come tale non riesce a lasciare indifferenti, se non altro per quanto si strugge nella sua ostinata fuga da qualsivoglia codifica. Perché Berberian Sound Studio è un film che va inizialmente ascoltato, dopodiché vissuto: in nessun caso va semplicemente visto. Non a caso ci sembra assurda anche la sola idea che un film del genere possa venire doppiato in qualunque lingua, pena demolirlo dalle fondamenta. Piaccia o meno, tutto ciò significa qualcosa. Ecco perché, una volta tanto, decidiamo in qualche modo di premiare l’incoscienza, lontana parente del coraggio.

Recensione: cineblog.it

 

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By Anam

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