Titolo originale: À flor do mar
Nazionalità: Portogallo
Anno: 1986
Genere: Drammatico
Durata: 143 min.
Regia: João César Monteiro
Una giovane vedova italiana trascorre l’estate in Portogallo. Un giorno in spiaggia trova un uomo in fin di vita, lo ospita in casa sua e, su richiesta dello stesso uomo, lo tiene nascosto, anche se non sa ancora perchè. Con il passare dei giorni i due approfondiscono la conoscenza e l’amore sboccia di nuovo nella donna.
Questo A flor do mar, mai arrivato doppiato in Italia nonostante la protagonista italiana (una Laura Morante sulla trentina, manco a dirlo splendida), è il film che chiude la prima parte del percorso artistico di Joao Cesar Monteiro. Il cineasta proveniva dalla critica, agguerrito sostenitore di un cinema di metafora, ricco di contenuti impliciti e riferimenti trasversali alla cultura del proprio Paese (da una decina d’anni uscito finalmente dalla lunga dittatura di Salazar, e quindi in grande fermento intellettuale) e non solo; con i suoi primi lavori (qui ormai era prossimo ai cinquant’anni) riscosse modesto successo in patria, ma negli anni ’80, a partire dal precedente Silvestre (1981), presentato a Venezia, Monteiro ebbe modo di proporsi anche al pubblico internazionale.
Eccolo così realizzare un film lento, viscerale, disperato di una disperazione esistenziale, eppure innamorato della vita in maniera quasi morbosa, passionale: un film alla Monteiro insomma, in cui i personaggi (quelli centrali sono tutti femminili, tranne Robert/Philip Spinelli) esprimono la loro instabilità emotiva senza bisogno di parole (anche se ad ogni modo i dialoghi di Monteiro sono sempre fulminanti, precisissimi) e le cose accadono con la medesima naturalezza, sia che si tratti di momenti di vita quotidiana in famiglia che di un’irruzione di terroristi nel soggiorno durante un pacifico pomeriggio estivo.
L’assurdo, il buffo della condizione esistenziale non è ancora affidato alle potenti allegorie della trilogia di Joao de Deus (lavori futuri del regista, per quella che sarà la seconda parte della sua carriera), la volgarità e la violenza sono ancora taciute (se si esclude la breve e piuttosto casta scena di sesso nel finale) quasi del tutto, ma Monteiro – che è anche autore del soggetto, della sceneggiatura e produttore, nonché protagonista di un paio di cammei – ha già le idee chiare, riuscendo a trasmettere nel suo cinema un malessere tutto portoghese (la romantica saudade che ben si accoppia ai Fiori del male baudelairiani cui il titolo allude), ma profondamente umano.
Citazioni rosselliniane a raffica, nei dialoghi e perfino nel cognome (appunto Rossellini) della protagonista. Ma l’impostazione cattolica del regista italiano è parecchio lontana dagli ‘umanistissimi’ territori in cui spazia Monteiro. Per quanto riguarda infine la lunghezza, considerata anche la calma estenuante con cui si sviluppa la narrazione, centoquarantatre minuti sono appena sufficienti. Vorremmo non finisse mai.
Recensione: filmtv.it