5150 RUE DES ORMES [SubITA]

Titolo originale: 5150, rue des Ormes
Paese di produzione: Canada
Anno: 2009
Durata: 110 min.
Genere: Drammatico, Horror, Thriller
Regia: Éric Tessier

Rue des Ormes è una strada tranquilla in una piccola città del Canada. Dopo una caduta dalla bicicletta, Yannick Bérubé si ritrova, suo malgrado, sequestrato da una una famiglia di pazzi: i Beaulieu. Jaques, il padre, è un esaltato che vuole liberare il mondo dal male e sua moglie, Maude, gli obbedisce devota, Michelle, 16 anni, è la primogenita insubordinata, e Anne, 7 anni, la seconda figlia con grossi problemi psicologici.

Altro horror, altra corsa: ecco anche oggi la recensione di un film “di genere” o, meglio, del mio genere preferito. Il film di questo post quasi sicuramente sarà sconosciuto ai più: si tratta di 5150 Rue des Ormes. Inutile dire che il mercato italiano, che predilige i Paranormal Activity di turno ed esclude film di minor presa ma decisamente più interessanti, non ce l’ha portato nemmeno in dvd. 5150 Rue des Ormes è un’opera canadese del 2009, girata da Éric Tessier, alla sua terza prova registica ma sconosciuto ai più.

5150, Rue des Ormes è anche la via in cui il giovane Yannick Bèrubé cade dalla bicicletta per evitare un gatto. Yannick, partito da casa perché ha vinto un concorso ed è entrato in una scuola di cinema dove crede di poter dimostrare al dispotico padre di valere qualcosa, si troverà nei pasticci seri con la famiglia Beaulieu, da cui verrà fatto prigioniero.

Avrete tutti capito che, a livello di trama, parliamo del solito film in cui la vittima, un/a malcapitato/a innocente e anche abbastanza inadeguato all’ambiente che lo circonda, finisce preda di una famiglia di psicopatici. E in effetti di questo si tratta e non ci sarebbe altro da aggiungere se Tessier non affrontasse l’argomento in maniera (quasi) inedita.
Sì, perchè la famiglia Beaulieu, appartenente alla piccola borghesia canadese (che non è la borghesia americana ma la ricorda molto da vicino), non è una famiglia cattiva: fa quello che fan tutte (le famiglie), dai pranzetti e le cene preparati dalla madre, casalinga repressa, al lavoro giornaliero del padre, perno dell’istituzione; alla figlia grande e inadeguata che studia e cerca di essere all’altezza delle aspettative, alla figlia piccola, che ha qualche problemino, forse perchè i genitori non si amano più come una volta.
Una famiglia come tante altre, gestita da un padre-padrone apparentemente mite e giusto che poi si rivela un pazzo dispotico. Al solito critica all’istituzione per eccellenza che tanto nutrimento ha dato (e da) all’horror – e andatevi a vedere un altro film sfuggito alla furbissima distribuzione italiana, Mum & Dad (2008), che tratta l’argomento pur virando sul grottesco. Anche in questo caso però il regista da una virata al nostro film, evitando di farci addormentare come bimbi: c’è un motivo se il giovane Yannick è rapito e segregato dal signor Jaques Beaulieu, un motivo per nulla banale. Il ragazzo infatti, spinto dalla sfortuna e dalla stupidità (e anche dalla maleducazione, aggiungerei io), ha assistito a qualcosa a cui non avrebbe mai dovuto assistere. La sua è quindi una punizione del caso. Il signor Beaulieu ha infatti una missione (che ricorda quella di Frailty, film di un po’ di anni fa, ma senza la componente soprannaturale) che porta avanti da tempo e che presto dovrebbe passare nelle mani della figlia maggiore, Michelle. Trovandosi difronte all”estraneo”, a colui che è al di fuori degli schemi sociali prestabiliti, perde il controllo della situazione, dimostrando tutta la propria inadeguatezza. Di più non dico, per non rovinare la possibile visione a nessuno.

Il film è un crescendo di tensione psicologica assolutamente funzionale. La violenza resta sullo sfondo, cattiva come sempre ma non di primaria importanza nel contesto. Al regista infatti sembrano interessare i meccanismi che portano all’ come fosse un primo passo verso la pazzia. Un vivere sociale come trappola che trova il suo meccanismo più perverso nel sistema familiare. Ancora una volta i figli, visti come contenitori dei sogni o delle volontà paterne, divengono vittime di un sistema che non li considera “pari” ma “sudditi” psicologici. La lotta tra la vecchia e la nuova generazione, quest’ultima priva degli strumenti per comprendere valori ormai superati, è destinata alla distruzione dei rapporti.
Lentamente, con l’incedere dei minuti, il film assume risvolti onirici incredibilmente vividi. I traumi del passato salgono a galla, le paure prendono forma e la follia non si nasconde più dietro una parvenza di normalità. Siamo tutti malati, sembra volerci dire il regista. Chi più chi meno. una malattia senza cure perchè radicata nel profondo.
5150 Rue des Ormes raggiunge il suo apice verso la metà dei suoi 110 minuti. Per poi precipitare inesorabilmente. Sì, perchè sembra che a un tratto Tessier non abbia più saputo che pesci pigliare e abbia deciso di fare la scelta peggiore per uscire dal vortice in cui era finito nel tentativo (riuscitissimo) di farvi finire i suoi personaggi: mostrare l’orrore. Decide quindi di mostrare allo spettatore, senza mezzi termini, quel che non dovrebbe mai essere mostrato e di aprire la cantina (neanche metaforicamente parlando) dove il signor Jaques tiene i suoi scheletri (che effettivamente in un armadio non ci sarebbero mai entrati). Il ridicolo involontario diventa inevitabile. La citazione di Bergman scontata: inizia una vera e propria battaglia a scacchi tra il carnefice e la vittima, tra onirismo non riuscito e follia senza controllo. Sembrerebbe che l’abisso (tanto per i protagonisti quanto per il regista e, di conseguenza, il film) sia inevitabile ma… con un colpo di reni Tessier si risolleva e ci regala un finalissimo da brividi che non potrà lasciare con un vago (ma neanche tanto) senso di disagio lo spettatore.

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Insomma, un bel film che si perde per poi ritrovarsi all’ultimo secondo. Ancora una volta aleggiano Lynch (quando si parla di onirismo come non pensare a lui) e Cronenberg. Che Tessier abbia osato troppo? Forse. Peccato che sconterà, ma che ci permette comunque di apprezzare una pellicola con tanti punti di forza, tra cui le buone prove degli attori e una fotografia all’altezza. Chiudere un occhio a volte è lecito.

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