
Titolo originale: 23 Walks
Paese di produzione: UK
Anno: 2020
Durata: 102 min.
Genere: Commedia, Drammatico, Sentimentale
Regia: Paul Morrison
Per l’uomo occidentale non avvezzo alla filosofia (ma a pensarci bene forse anche per quello avvezzo) c’è comunque una valida risposta alla famosa domanda “dove andiamo”: vecchiaia improvvisa, solitudine oramai smascherata, consapevolezza che tutti i nostri sogni rimarranno tali, insopportabile terrore della morte.
In bocca al lupo, compañeros.
Fern, ex Tiller Girl incastonata nel rimpianto, e Dave, ex infermiere di salute mentale e uomo affranto, si incontrano ogni giorno portando al guinzaglio i rispettivi cani in un parco di Londra. Tra camminate e dialoghi timidi, emergono segreti personali: un passato di abbandoni, lutti, case da mantenere. Tra il rumore dei padroni, il tempo che passa e le foglie che cadono, nasce una relazione fragile e tardiva.
C’è un tipo di cinema che si nutre di silenzi e passi ripetuti. 23 Walks è proprio questo: un rituale di incontri quotidiani e di cuori logori che tentano di imparare a sentirsi di nuovo. Paul Morrison, regista e terapeuta, filtra questa storia attraverso un occhio che sa osservare il dolore invisibile, la solitudine non gridata, la difficoltà di ricominciare quando si ha già vissuto troppo.
Fern e Dave camminano, parlano, esistono tra stagioni che avanzano lente. I loro cani sono gli unici testimoni in grado di restare presenti, mentre gli altri passi — quelli delle famiglie, dei figli adulti, dei debiti — li abbandonano appena girano le spalle. Ma in questa ripetizione apparentemente banale si insinua qualcosa di sacro: un contatto autentico tra due anime sopravvissute.
Il film non è romantico come ci si aspetta: non promette bagni di rose né colpi al cuore. È un romanzo ai margini del sentimento, una riflessione sull’invecchiare, sull’amare quando si è stanchi, sul tentare comunque. Eppure, l’ironia c’è: Steadman e Johns portano una leggerezza spessa, fatta di battute taglienti (“questo cane non sta al guinzaglio”) e accenni di passione ancora possibile.
Molti critici hanno notato i limiti narrativi: il film non mantiene la promessa delle ventitré passeggiate, alcuni dialoghi cadono nel cliché, l’entrata in scena dei drammi sociali (dementia, affitti) sembra forzata come in un film di Ken Loach mal costruito. Ma questa stanchezza della scrittura—ammessa da Empire e Telegraph—diventa parte del suo vero significato: l’esistenza che continua nonostante la sua ripetitività.
Fotografie dorate d’autunno, foglie ingiallite, parchi londinesi che brulicano di rumori e solitudini. La macchina da presa preferisce la distanza, osserva mentre i protagonisti si raccontano l’un l’altro—ma ci restituisce anche il paesaggio interiore che scava dentro chi ha già perso e ritrovato troppo poco.
La famosa scena dell’amore tra i sessantenni è una dichiarazione silenziosa: l’intimità non muore all’età matura. Il desiderio resiste, ma è scandito dal timore, dalla memoria di ciò che non è stato affrontato. E Steadman e Johns “accendono” quelle ore con grazia, mostrando che anche negli incassi irrisori e nelle recensioni tiepide, esiste una verità che vale più di ogni grande produzione.
23 Walks non vuole commuovere. Vuole una tua attenzione. Vuole che senti il passo dopo passo. Vuole che guardi la tendinite dei ricordi sul volto di chi ha amato e ha perso, e che accetti che l’amore vero nasce anche da piccoli gesti: un tè, uno sguardo, un guinzaglio che si intreccia.
Alla fine rimane una sensazione amara e tenera: la vita adulta è fatta di tentativi tardivi. Forse non salveranno il mondo. Ma si salutano all’alba, si guardano negli occhi, e scelgono ancora.
Un piccolo incanto quotidiano. Un’esistenza che rivendica sé stessa, un passo alla volta.
