YAKUZA APOCALYPSE [SubITA]

Titolo originale : 極道大戦争 – Gokudō Daisensō
Paese di produzione : Giappone
Anno : 2015
Durata : 115 min
Genere : Horror, Azione, Grottesco, Fantastico
Regia : Takashi Miike

In Yakuza Apocalypse Takashi Miike firma un folle pastiche avant-pop e demenziale, che mescola gli yakuza eiga all’horror, ai kaiju eiga, ai film di arti marziali. Con un ranocchio gigante da antologia. Alla Quinzaine des réalisateurs.

Rana libera tutti
Kamiura è un leggendario leader della yakuza. Leggenda vuole che sia immortale, e in effetti è un vampiro, un capo-yakuza-vampiro! Kageyama è il più fedele membro del suo clan, ma gli altri yakuza si prendono gioco di lui, che ha la pelle troppo sensibile per potersi fare i tatuaggi di rito. Un giorno degli uomini arrivano dall’estero e presentano un’ultimatum a Kamiura: o rientra a far parte del sindacato internazionale del crimine che ha abbandonato oppure verrà ucciso. Kamiura rifiuta, e il suo corpo viene smembrato al termine di un feroce combattimento. Prima di morire, Kamiura morde Kageyama, trasmettendogli i propri poteri. Al suo risveglio Kageyama decide di servirsi di tali poteri per vendicare la morte del suo capo e combattere il sindacato internazionale del crimine. [sinossi]

Il problema che ancora esiste nell’approcciarsi al cinema di Takashi Miike è esploso in tutta la sua virulenza prima della proiezione al Marriott di Cannes di Gokudō daisensō, alias Yakuza Apocalypse. In una sala piena in ogni ordine di posti è salito sul palco in rappresentanza della troupe Yayan Ruhian, maestro del Pentjak Silat (l’arte marziale indonesiana) già apprezzato nel dittico The Raid e The Raid 2: Berandal del gallese di stanza a Jakarta Gareth Evans: Ruhian si è lanciato in evoluzioni di vario tipo, tra cui calci volanti, prima di ringraziare il pubblico e lanciare la proiezione con il più classico degli “enjoy the movie!”. Ma non è finita qui, perché sullo schermo, prima dei titoli di testa, è apparso il volto di Miike che, vestito da geisha, si è scusato con l’uditorio per la sua assenza (dovuta al lavoro sul suo nuovo set) asserendo che fosse dovuta alla decisione di cambiare sesso e di girare, d’ora in poi “solo film che parlino d’ e amicizia”. Una parte della platea si è lanciata in una grande risata seguita da un applauso convinto, ma altri hanno storto la bocca, trovando il tutto di cattivo gusto e lamentando una perdita di serietà oramai irreversibile da parte della Quinzaine des réalisateurs, dove il film era ospitato in una proiezione speciale fuori concorso.
La serietà, questa immensa bolla di sapone in cui dovrebbe galleggiare tutto il cinema del mondo. È dagli esordi che Miike combatte con una tale deriva critica: nessuno si è mai permesso di mettere in dubbio la genialità delle scelte, ma perché prendersi così poco sul serio? Perché scegliere di “non essere autore” fino in fondo?

Se c’è invece un segnale che arriva inequivocabile a chiunque abbia avuto modo di posare gli occhi su Yakuza Apocalypse è proprio che Takashi Miike è un genio. Un grande regista, senza dubbio sì. Un profondo conoscitore dei meccanismi della narrazione per immagini, anche questo. Ma soprattutto un genio, nel senso che nel “meraviglioso” si può dare del termine. Basterebbe l’incipit di Yakuza Apocalypse, la sua ottantaquattresima regia di un lungometraggio (considerando anche i lavori per la televisione e gli “originari bideo”, i film pensati per lo straight-to-video), per evidenziare questa verità. Kamiura è un boss della yakuza amato e rispettato, sempre dalla parte del popolo (“non si possono toccare i cittadini” è il suo mantra ossessivo); alcuni lo considerano addirittura immortale, e non si sbagliano. Kamiura è infatti un vampiro, e questo lo porta a essere osteggiato dal “Sindacato Internazionale del Crimine” (sic!), gestito da stranieri che parlano un inglese un po’ raffazzonato e lo vogliono morto. Ma il boss prima di morire riesce a trasmettere il suo morbo al più fedele dei sodali, quel Kageyama che viene scherzato dai suoi “colleghi” perché, con la pelle morbida che si ritrova, non può farsi tatuare…

Da questo mini-plot, che dà il la all’azione, prorompe un pastiche avant-pop che, come sempre per quel che concerne Miike, non ha eguali nel cinema contemporaneo. In molti si abbandonano con ben poca passione al dinamitardo incedere del cinema di Miike, così pronto a smentire ogni assunto per cedere al fascino del nonsense, dell’esagerazione, dell’iperbole demenziale. Non è serio, dopotutto, e non lo sarà probabilmente mai. Ma cos’è la serietà?
C’è più Cinema, con la c maiuscola, in una qualsiasi delle sequenze di Yakuza Apocalypse che nella stragrande maggioranza dei film presentati quest’anno sulla Croisette. Nel suo mélange portato alle estreme conseguenze Miike non nega il senso pudico e intimo del cinema, ma scardina i lucchetti della prassi, della norma, dell’ovvio. Pur senza raggiungere le vette della sua cinematografia (citando a caso: Izo, Gozu, Ichi the Killer, Happiness of the Katakuris, 13 assassini, Full Metal Yakuza, Shinjuku Triad Society, Visitor Q, la di Dead or Alive), Yakuza Apocalypse dimostra una volta di più cosa significhi utilizzare la macchina/cinema come atto di pura liberazione dell’immaginario. Non un inno al caos, però, perché in realtà Miike sa benissimo cosa e perché mettere in scena: potrà a volte peccare di eccesso, lasciandosi prendere la mano da situazioni trascinate più a lungo di quanto si “dovrebbe”, ma non lascerà mai nulla al caso.

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Anche le situazioni più improbabili (impossibili) come l’irruzione in scena della rana gigante, “il terrorista più pericoloso del mondo”, con Yakuza Apocalypse che si sposta di colpo dalle parti del kaijū eiga, non sono mai gettate nella mischia per puro gusto dell’accumulo, ma acquistano un senso più alto, un valore nel disvalore che stravolge una volta di più la logica strutturata.
Tra kappa che combattono contro yakuza che combattono contro rane giganti che combattono contro esperti di arti marziali che combattono contro bambini armati di ascia che combattono contro vampiri che combattono contro personaggi che sembrano usciti da un western di Corbucci, Yakuza Apocalypse si trasforma nell’ennesima esperienza fuori dalle corde di Takashi Miike. Nel gioco di Miike non c’è spazio per la prammatica, e la violenza non assume mai una valenza catartica, perché non esiste sgravo o fuga dal mondo che mette in scena. Non riflette sul cinema, Miike, ma riflette cinema, lo specchia nella più delirante delle sue inquadrature, lo usa come si potrebbe utilizzare uno stupido gioco di ombre sul muro per distogliere l’attenzione dei bambini. E siamo tutti bambini di fronte ai film di questo eretico della Settima Arte, destinato con ogni probabilità a non essere mai compreso fino in fondo, forse neanche da parte dei suoi fan adoranti. Intanto Miike, che tra Over Your Dead Body (presentato a Rotterdam a gennaio) e Yakuza Apocalypse ha fatto uscire nelle sale anche Lion Standing Against the Wind, è già al lavoro su Formars, tratto dal manga di Yū Sasuga. Una nuova ha inizio, per registi, geishe, rane e kappa. Buon divertimento.

[quinlan.it]

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By Anam

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