TRIANGLE OF SADNESS (SubITA)

Titolo originale: Triangle of Sadness
Paese di produzione: Svezia, Francia, Regno Unito, Germania, Messico, Turchia, Grecia, Stati Uniti, Danimarca, Svizzera
Anno: 2022
Durata: 147 min.
Genere: Commedia, Drammatico, Grottesco
Regia: Ruben Östlund

Ambientato nel mondo della moda e racconta la storia di due modelli, Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charlbi Dean), che prossimi al tramonto della loro carriera, decidono di dire addio alle passerelle. Nonostante la loro giovane età, il tempo inizia a mostrare i primi segni del suo passaggio e nello stressante mondo del fashion le rughe non sono viste di buon occhio. È così che Carl e Yaya si ritrovano di fronte a un bivio: abbandonare o resistere? Lui inizia a mostrare i primi segni di calvizie e lei, essendo lesbica, si vede costretta a rifiutare le continue e assillanti proposte e corteggiamenti di uomini facoltosi.

Ruben Östlund, svedese classe 1974 e giovane regista per l’anagrafica speciale dell’industria cinematografica, è il Michael Jordan della Croisette. Nessuno come lui per media realizzativa. Tre partecipazioni, tre primi premi (due palme, un certain regard). Avendo il primo massimo alloro a The Square consacrato un Autore, era inevitabile che le aspettative, l’hype e la pressione circolassero potenti attorno all’opera successiva del giovane scandinavo tanto per i tempi maturi per il capolavoro, tanto per quanto riguarda il riscontro di mercato dopo gli incassi notevolissimi per un film da Cannes che parla di arte contemporanea ottenuti da The Square. Inoltre la nomination all’Oscar provava le potenzialità da talento d’esportazione al di fuori del circuito festival/essai. Triangle of sadness nasce quindi con lo stigma del balzo in avanti e del salto di scala, in ogni fase – una grande produzione, un recitazione per la prima volta (quasi) tutta in inglese, una campagna pubblicitaria martellante e con trovate da blockbuster (i sacchetti di carta per vomitare distribuiti al cinema a modo di gadget) – e in ogni direzione verso il successo pop e l’empireo degli Autori. Programmatica a proposito la scelta come protagonista caduta su Harris Dickinson: bello bellissimo da mozzare il fiato, perfetto per le locandine e spremuto per mille contenuti Instagram e TikTok MA al contempo dal pedigree alternativo purissimo (Eliza Hittman, Xavier Dolan, Joanna Hogg).

C’è, in Triangle of sadness, tanto gigantismo quanto completismo, la stessa ricerca del colpo a effetto quanto della sintesi definitiva. Territori così ambiziosi sono inevitabilmente minati e Östlund – forse per deliberata scelta autoriale, forse per mediazione con richieste produttive inevitabilmente più pressanti, forse per ansia da prestazione rispetto all’hype folle e alla beatificazione precoce – sceglie di attraversarli nel modo più conservativo, andando il più possibile sul sicuro. Ciò vale tanto da un punto di vista ideologico/contenutistico (ci torniamo tra poco) quanto da quello deontologico, formale e artistico. I tre capitoli che vorrebbero tracciare il poliedro della tristezza contemporanea sono in realtà un remix palese di capolavori che vengono prevalentemente all’age d’or del cinema impegnato ossia gli anni settanta: La grande abbuffataTravolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, L’angelo sterminatore oltre a Monthy Python’s Meaning of life. Prendere a prestito gli spietati meccanismi a orologeria con cui Bunuel, Wertmuller, Ferreri facevano a pezzi gli automatismi sociali e le strutture di classe, genere, discorso garantisce una macchina cinematografica di grande effetto, specialmente se lo spettatore non conosce i modelli di riferimento. Resta il problema dell’aggiornamento. Proprio in quanto meccanismi di spietata precisione, le opere militanti di cui sopra sono tarate sulla realtà oggettiva del loro tempo e si adattano con qualche scricchiolio al discorso contemporaneo che Östlund vorrebbe imbastire. L’attacco poi è un pastiche scoperto del più recente Zoolander: a differenza del divertentissimo fashion movie demenziale di Ben Stiller, Östlund gira la stessa scena senza abbandonarsi alla farsa ma tiene un piede nella critica sociale risultando infinitamente meno divertente e facendo cadere dall’alto un apologo sulla vacuità e superficialità del mondo della moda (e grazie al cazzo, commenta il poeta). Anche la scena successiva che si snoda tra il ristorante dove i due modelli-influencer litigano su chi dovrà pagare il conto e l’albergo dove sbroccano risulta scritta a tesi e irritante, dà l’impressione dell’inserimento forzato, per ossessione, del tema cardinale nella poetica ostlundiana ossia la crisi socio-esistenziale del maschio contemporaneo – un tema trattato in modo infinitamente più sottile e intrigante nell’incompiuto ma interessantissimo Forza maggiore (probabilmente il suo film migliore) col suo realismo perturbato oppure sublimato in immagini potentissime e più incisive di qualunque dialogo quale lo scimmione a tavola di The square. Si insinua dal primo atto il dubbio che la scelta facile ad effetto sarà spingere a tutta su metafore e spiegoni – spesso, per fortuna non sempre, così sarà.

Gli oggetti centrali di Triangle of sadness sono al contempo essi stessi e una metafora: la nave alla deriva dal capitano ubriacone (sarà mai il sistema tardocapitalista?), il vomito (l’ultraconsumo, l’indigestione blink blink), l’ascensore (sociale)… Più esattamente sono l’espressione proverbiale, giornalistica di formule economiche. Il regista ha dichiarato che l’ispirazione per il film è venuta guardando youtube su un esperimento in cui alcune scimmie erano esposte a palesi diseguaglianze e iniquità in fatto di banane che riconoscevano reagendo con rabbia. Se il film vuole essere a sua volta un esperimento in vitro a tratti finisce in un eccesso di sociologia che tracima nello schematismo e, soprattutto, nel didascalico. Anche il finale aperto da libro game che lascia lo spettatore singolarmente libero di trarre le conseguenze vorrebbe essere un reagente per far emergere a modo di maieutica e macchia di Rorschach il giudizio di ognuno sul sistema socioeconomico in cui vive. Resta una questione aperta: si può trattare il capitalismo nei caratteri essenziali di sfruttamento e sperequazione, isolando in termini materialisti il tema marxista del plusvalore o in senso esistenziale quello marcusiano dell’alienazione e farne dei tratti assoluti e astorici, probabilmente intrinsechi a qualsiasi sistema sociale successivo alla rivoluzione cognitiva che pose fine alla società indivisa dei cacciatori raccoglitori e continuamente intensificati a partire dalla nascita del capitalismo moderno con il comandamento della crescita e dello sviluppo. Oppure, come pare nelle intenzioni di Östlund, trattare esattamente la forma storica assunta dal capitalismo contemporaneo. Una delle parti più riuscite e spassose, grazie soprattutto a un attore magnifico come Zlatko Buric nel ruolo di un oligarca post-sovietico del letame, è l’incontro tra il denaro immateriale, incorporeo e fino inesistente degli influencer (essi non vengono retribuiti, ricevono omaggi) e il denaro sporco di sangue e merda (letteralmente) dei tycoon old school. Da una forma economica discendono forme di vita e tipi umani e, nel film, una serie di caratteristi che si incrociano in scene comiche e gag a volte irresistibili, specialmente quando sfondano il muro del politicamente corretto (la donna che, in seguito a un ictus, riesce a dire solo “Ja” e “In den Wolken” come nella performance di Joseph Beuys è genio purissimo). Invece la cena gourmet che diventa alluvione gastrointestinale vorrebbe essere Ferreri ma mancano parecchi strati di filosofia francese, cominciando da Bataille, per imbastire un discorso complesso che vada oltre il rispettabile piacere infantile di vedere i ricchi smerdarsi. Resta un Monthy Python molto meno divertente – e molto meno radicale perché, mentre il signor Creosote era un corpo osceno e oscenamente assurdo e perturbante, semioticamente disancorato e quindi infinitamente generativo, i conati e le colate di escrementi di Triangle of sadness hanno troppa ansia di alludere, ammiccare, simboleggiare un concetto elementare. Il risultato è la versione ben confezionata di qualcosa tra la predica e Plauto (o corrispettivi contemporanei, i fratelli Vanzina?). In fondo anche il catalogo dei luoghi del privilegio – ristoranti stellati, navi da crociera, resort di lusso – sembra rimandare a rappresentazioni anni ottanta / anni duemila scadute, a riserve indiane dove indubbiamente ancora vivono, anacronisticamente, nuovi e vecchi oligarchi ma che appaiono, esattamente come il mondo delle celebrity, un immaginario sterile, che non ha nulla a che vedere con le proiezioni della vita, della realtà, del futuro del pianeta. Significativamente invece Östlund non sa come rappresentare quella che nei film cui fa riferimento si sarebbe chiamata la classe proletaria. Quella che vuole essere una satira totale del capitalismo lo mostra correttamente come l’ideologia onnipervasiva che è. Non è interessato invece a guardare le isole, le smagliature di resistenza e contestazione radicale del sistema che vanno aprendosi sempre più ampie da diversi angoli e che sono, invece, il futuro in nuce. Un film non deve essere quello che non vuole essere, soltanto registriamo un senso di retroguardia. Ignorando come le plurime crisi sistemiche degli ultimi quindici anni abbiano aperto immaginazioni di nuovi mondi e modi e restando confinato in un recinto strettissimo di realismo capitalista, Triangle of sadness finisce con concordare con la citata (dal magnate del letame, ovviamente) Margaret Thatcher sul fatto che “there is no alternative”. Poi, chiaramente, il giudizio di merito è diametralmente opposto a quello agghiacciante inteso dalla lady di ferro.

Guarda anche  EL METODO [SubITA]

Il capitalismo come ideologia totalitaria à la Mark Fisher copre tutto il globo – non ci sono neppure più le isole deserte di una volta! Di Robinson Crusoe al limite ci resta “L’isola dei famosi”. È il liquido dentro cui nuotano tutte le interazioni sociali. “Is this really the way it is or a contract in a mutual interest?” cantavano i Gang of Four nella loro decostruzione marxista del romanticismo ingenuo delle canzoni d’amore. L’idea che i due influencer si amino per incrementare i follower, organizzino la propria storia d’amore in funzione di creazione di immagini sarebbe la versione contemporanea di “Entertainment!” della band post punk di Leeds. Si tratta, come prima con la moda, di una antonomasia della riprovazione morale riguardo i social superficiali, tutti apparenza e niente autenticità (anche qui il poeta ripete il suo grazie al cazzo). Come sopra, Triangle of sadness parte da premesse di studio socio-antropologico poi prende, legittimamente, la strada della satira buttata addosso a figurine emblematiche che sono, senza eccezione, mostri. Non ci può essere empatia per personaggi che sono esclusivamente funzioni di un discorso – e, siamo chiari, è una nota neutra: quanti film belli e importanti hanno fatto lo stesso a partire, nomen omen, da I mostri di Dino Risi? Ed è interessante a proposito rilevare en passant come tante satire sociali recenti, da Parasite in giù, abbiano debiti più o meno dichiarati verso la commedia all’italiana. Östlund decide di non fare dei subalterni esempi madreteresiaci di virtù e rassegnazione (meno male) ma di pensarli semplicemente come individui caduti dalla parte sbagliata del mondo, vittime impotenti ma aguzzini feroci se solo potessero. È un film che sceglie il cinismo spietato e il giudizio senza appello sulla specie sapiens. Lo fa in forma semplificata e depurata da ambiguità (per venire incontro ai tempi?): purtroppo la sopracitata mancanza dello spessore filosofico dei grandi capolavori anni ’70 lascia un’impressione molto più intensa di nichilismo demoralizzante, di catalogo di miserie umane piuttosto che di radicalismo politico. Il film intende navigare ortodosso lungo la rotta tracciata da Karl Marx e nel non l’avessimo capito imbastisce una sezione centrale Wikiquote in cui il capitano socialista e il capitalista ex-sovietico si sfidano a colpi di citazioni ideologicamente opposte. Poi dal didascalico si passa alla parabola. Il terzo atto è lo sviluppo della tesi marxiana per cui chi controlla i mezzi di produzione controlla la società. L’amore come lavoro diventa il come valuta corrente nel mondo rovesciato che si ricostituisce sull’isola-presunta-deserta dove i ruoli gerarchici apicali si redistribuiscono secondo condizioni oggettive radicalmente mutate. La signora delle pulizie diventa signora delle mosche. Östlund da buon marxista suggerisce che ogni rapporto di potere, compreso quello tra generi, è subordinato ai rapporti di classe vista la rapidità con la quale la nuova società prende la forma matriarcale senza modificare presupposti di ingiustizia e disuguaglianza. Siamo sotto il segno di Marx ma anche di Giulio Andreotti visto che la morale ostentatamente cinica dell’apologo è che il potere logora chi non ce l’ha.
Esaminando in senso materialista-dialettico un film marxista abbiamo fin qui tracciato la pars destruens e segnalato cosa non funziona in Triangle of sadness, spesso per inadeguatezza alle sue ambizioni smisurate. E perché la completa subalternità a stilemi e meccanismi presi in prestito si inserisce indirettamente nell’attuale diluvio di remake e reboot, contribuisce alla retromania, al sequestro di futuro e all’impressione sempre più soffocante che la strada battuta sia quella sicura, che l’esperimento, il modo nuovo non abbiano più le condizioni per nascere, al cinema come presso altre forme espressive. Tuttavia, se preso per ciò che è e non per ciò che vorrebbe essere, ha vari momenti godibili, soprattutto quelli surreali, bunueliani in purezza – le già citate scene con Zlatko Buric o la sequenza in cui una ricca annoiata costringe a forza l’equipaggio a fare un bagno ritemprante. Basta non prendere il film come un saggio militante ma come una farsa che cerca la risata crassa, il colpo a effetto verso il bersaglio facile, come un film perfettamente inserito nelle logiche spettacolari e commerciali che sembra criticare ma non vuole/riesce a dinamitare dall’interno finendo per far ridere con un retrogusto engagé che non impegna troppoTriangle of sadness non è un film malvagio, è semplicemente il film Banksy di Ruben Östlund.

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By Anam

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