TILBURY (SubENG)

Titolo originale: Tilbury
Paese di produzione: Islanda
Anno: 1987
Durata: 57 min
Genere: Grottesco, Horror, Satira, 
Regia: Viðar Víkingsson

Sinossi:
Durante la Seconda guerra mondiale, l’Islanda è invasa dai soldati britannici. Un giovane islandese, di ritorno a casa, scopre che la donna di cui è innamorato ha intrecciato una relazione con uno di loro — un uomo ambiguo, dall’aspetto elegante ma inquietante. Ben presto, tuttavia, emerge che l’ufficiale inglese non è umano, ma un “tilberi”, una creatura del folklore islandese: un demone creato attraverso pratiche stregonesche, un essere nato dal latte e dalla menzogna.

Recensione:
Tilbury non è semplicemente un film, ma una leggenda filmata, un incubo folklorico impastato di umorismo nero e di un assurdo glaciale, come se le antiche paure di un popolo contadino avessero trovato rifugio tra le nebbie di una nazione occupata. Viðar Víkingsson, con un budget quasi inesistente, riesce a scolpire un piccolo capolavoro di satira mistica, una storia che vibra di superstizione, erotismo e repulsione. È uno di quei film che sembrano usciti da un sogno di febbre: pieno di umidità, di fango, di latte rancido e risate isteriche.

L’atmosfera che Víkingsson costruisce è un miracolo di ambiguità. L’Islanda della guerra, popolata da donne che barattano la dignità per un paio di calze inglesi e da uomini che tornano dalle basi militari con lo sguardo spento, diventa una terra di possessione. Non una possessione demoniaca nel senso convenzionale, ma un’infiltrazione più sottile — quella dell’avidità e del desiderio, della tentazione coloniale che corrompe la carne e lo spirito. Il “tilberi” è l’incarnazione perfetta di questo contagio: un mostro che si nutre di latte, il simbolo stesso della vita, per trasformarlo in una sostanza impura, lattiginosa e vischiosa come il peccato.

La regia alterna un realismo quasi documentaristico a lampi di visionarietà disturbante. I paesaggi islandesi, grigi e ventosi, diventano un palcoscenico biblico, e il folklore diventa una forma di resistenza all’invasione culturale. In questa prospettiva, Tilbury non è solo una storia di stregoneria: è una metafora del colonialismo, dell’assimilazione, della perdita dell’identità nazionale sotto la seduzione dell’“altro”. Ogni risata, ogni gesto, ogni sguardo è attraversato da un senso di vergogna collettiva, di corruzione morale.

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C’è qualcosa di profondamente fisico in questo film — il suono del latte che ribolle, il sudore dei corpi, il fango che si attacca ai piedi. È un cinema tattile, che quasi si può toccare e annusare. Víkingsson sembra interessato meno alla paura che alla contaminazione: ci mostra come il mostro entri dentro di noi, piano piano, senza mai bussare. La sua regia è sobria, ma piena di momenti memorabili — il viso del “tilberi” che si scioglie in un sorriso demoniaco, la donna che lo accarezza come una madre, l’odore della decomposizione che aleggia sulle scene come una preghiera negata.

Il film è anche un esempio rarissimo di humour nero islandese, un’ironia corrosiva che svela quanto l’assurdo sia parte integrante del reale. È impossibile non leggere Tilbury come un gesto di ribellione culturale, un modo per dire che dietro il mito, dietro la magia contadina, c’è una verità più grande: quella che la civiltà “avanzata” porta con sé non solo progresso, ma anche mostri nuovi, meno visibili e più subdoli.

Víkingsson riesce dove molti falliscono: a fondere folklore e politica, mito e corpo, ironia e orrore, creando un linguaggio tutto suo, immediatamente riconoscibile. In meno di un’ora, Tilbury condensa un universo di significati, lasciando nello spettatore la sensazione di aver assistito a qualcosa di profondamente disturbante, ma anche irresistibilmente vivo.

Alla fine, quando il “tilberi” si rivela per ciò che è — una creatura nata dall’avidità e dall’amore malato — ci accorgiamo che il mostro non è più “l’altro”, ma noi stessi. È il riflesso dell’umanità corrotta, del desiderio che si traveste da bisogno, dell’amore che diventa parassita.

Tilbury è un piccolo gioiello del cinema weird europeo, una fiaba nera sul potere del mito, sulla fame di possesso e sulla fragilità del corpo umano di fronte al richiamo del sacro e del profano. In un mondo di orrori digitali e di effetti artificiosi, questa leggenda islandese rimane un monito: il vero mostro nasce sempre dal cuore dell’uomo, e si nutre della sua sete di felicità.

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By Anam

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