THE STICKY FINGERS OF TIME (SubENG)

Titolo originale: The Sticky Fingers of Time
Paese di produzione: USA
Anno: 1997
Durata: 79 minuti
Genere: Fantascienza, Noir
Regia: Hilary Brougher

Sinossi:

Una scrittrice intrappolata in una misteriosa frattura temporale inciampa in viaggi non lineari, identità che si specchiano e predatori del tempo che la inseguono. Tra futuri possibili, loop ossessivi e incontri impossibili, la protagonista tenta di ricomporre un’esistenza che si sfalda a ogni salto.

Recensione:
The Sticky Fingers of Time è uno di quei film che sembrano esistere in una tasca laterale del cinema, come se fossero stati girati altrove e solo per caso avessero trovato uno spiraglio per arrivare fino a noi. Hilary Brougher costruisce un’opera minuta e imprecisa, ma proprio per questo irripetibile, piena di quelle crepe che non sono difetti ma aperture verso una sensibilità difficilmente classificabile. È fantascienza, certo, ma una fantascienza che rinuncia fin da subito alla pompa concettuale: qui il viaggio nel tempo non è un meccanismo, è un malessere. Un disallineamento dell’anima.

Il film vive in quegli interstizi in cui lo spazio e il tempo si perdono uno nell’altro: ambienti vuoti, strade desolate, stanze che sembrano guardare i personaggi più di quanto i personaggi guardino loro. La protagonista attraversa i salti temporali come si attraversa un ricordo che non ci appartiene: con esitazione, con un senso di colpa, con una curiosità quasi masochistica. Non ci sono spiegazioni, non ci sono regole fisiche dichiarate: c’è solo la sensazione di una coscienza che slitta, e che slittando perde pezzi di sé, come briciole lasciate involontariamente lungo una strada che nessuno seguirà.

Brougher ha un talento raro: sa costruire atmosfere che sembrano improvvisate e invece sono rigidamente orchestrate. I dialoghi sono minimi, quasi sospesi, pieni di una tensione lieve ma continua, come quando senti che c’è qualcosa fuori quadro ma non riesci a capire da dove stia arrivando. Il noir non è un genere, ma un umore: lo si percepisce nei chiaroscuri, negli accenti laconici, nei movimenti lenti, nei volti che sembrano sempre trattenere qualcosa. È un film che non vuole intrattenere, vuole insinuarsi.

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La resa del tempo come fenomeno organico è forse l’intuizione più potente: non un vettore lineare, non una spirale scientifica, ma un tessuto che si sfilaccia e si ricuce da solo. Le “sticky fingers” del titolo sono come una metafora dei residui che il tempo lascia addosso, le tracce, gli strappi, gli addensamenti emotivi che non si possono eludere. Ogni salto è un ritorno, ogni ritorno è un trauma. E l’opera, invece di offrirci una soluzione narrativa, ci chiede di accettare la natura instabile di ogni identità quando messa sotto la pressione del tempo.

È anche un film che profuma di indipendenza nel senso più autentico: realizzato con pochi mezzi, che però diventano un vantaggio. La povertà di produzione diventa un’estetica dell’essenzialità. La mancanza di spiegazioni diventa un invito a leggere tra le righe. Gli interni spogli, le strade semivuote, le ripetizioni visive: tutto costruisce un mondo che sembra esistere a margine del nostro, un mondo dove il tempo non scorre ma ristagna.

E, come spesso accade con i film fuori dal tempo, l’opera non si risolve ma si apre: rimane una sensazione inquieta, un non detto, una piccola vertigine che ti segue dopo i titoli di coda. Non è un film che cerca di stupire: cerca di risuonare. E lo fa con un’intelligenza silenziosa, con una malinconia nervosa, con quella forma di poesia ruvida che appartiene solo a chi osa raccontare il tempo non come un fenomeno da spiegare, ma come un difetto della percezione umana.

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By Anam

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