Titolo originale: The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers
Paese di produzione: UK
Anno: 2015
Durata: 95 min.
Genere: Documentario, Sperimentale
Regia: Ben Rivers
Una raccolta che si dispiega placida, vuota, poi si contorce nella violenza, in parte dramma, in parte opaco saggio sulla natura dell’orientalismo.
Come sostiene Tommaso Isabella «Il cinema di Ben Rivers si è sempre mosso sapientemente sulla soglia incerta tra finzione e documentario, nell’intervallo che sta tra intuizione e costruzione» (Isabella). Un posizionamento interstiziale scelto per problematizzare lo statuto dell’immagine, e che rappresenta una delle questioni chiave attraverso cui poter provare a leggere e interpretare molta parte del cinema contemporaneo.
Basti pensare, ad esempio, a Michelangelo Frammartino che pone la questione evidenziata da Isabella in termini di controllo e non controllo: come da lui stesso dichiarato, al «desiderio di realizzare esattamente quello che hai in mente, […] si accompagna, paradossalmente, la convinzione che il reale che hai di fronte sia più interessante di te, e che forse sarebbe più giusto se ti ponessi come un medium per permettergli di svelarsi» (Frammartino in Marelli).
È attorno a questa tensione che viene costruito The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, lungo titolo ripreso da He of the Assembly di Paul Bowles, autore che, oltre a ispirare, come vedremo, parte del film attraverso il racconto Un episodio remoto contenuto nella raccolta La delicata preda, rappresenta, con la propria scrittura, un termine di confronto per il lavoro di ripensamento dei codici compiuto da Rivers, proprio per l’«alternanza sapiente – come evidenziato da Irene Bignardi – di autocontrollo e di abbandoni, di partecipazione e di freddezza» (Bignardi).
The Sky Trembles… comincia come il making of di Las Mimosas di Oliver Laxe. Rivers mostra la fatica fisica, di herzoghiana1 discendenza, che c’è dietro la realizzazione di un film: segue il regista sul massiccio dell’Atlante e tra gli interminati spazi del Sahara marocchino. Anche in questa fase di “pedinamento” apre però squarci sull’ambiguità e la complessità delle immagini, impossibili da fissare precettisticamente all’interno di sempre più inadeguati ordini di rappresentazione: durante una pausa dalle riprese, Rivers filma uno degli interpreti di Las Mimosas che, di fronte alla m.d.p., si esibisce in giochi di prestigio dopo i quali decreta: «Questa è la realtà!». È l’indizio della deriva che trascinerà il film verso territori oscuri, nel cuore di tenebra della visione.
Esattamente dove si dirigerà Laxe, in fuga dal proprio set, alla ricerca di qualcosa di più misterioso, più nascosto, da conquistare a rischio di perdersi. E inseguendo un’apparizione meridiana il regista diventerà a sua volta oggetto di messa in scena. Lo sguardo in tralice di Rivers, ancillare, sino a questo punto, all’operazione di Laxe, ora si fa diretto, senza scrupolo e senza riserbo; prende il sopravvento trasformando il collega nell’interprete di situazioni che ricalcano quelle del professore di linguistica raccontato da Bowles in Un episodio remoto: catturato dai predoni, viene mutilato della lingua e ridotto a Re di Lattine, giocattolo pronto a ballare al loro comando. «Hai trovato quello che cercavi» grida a un certo punto uno dei suoi rapitori.
Lo sviluppo di The Sky Trembles… procede secondo quando descritto da Michel Leiris in Frêle Bruit «Due culture sembrano fondersi in un affascinante, ambiguo abbraccio, soltanto perché l’una possa infliggere all’altra una più evidente negazione». Il lavoro di Rivers, oltre a far precipitare la rappresentazione nel gorgo allucinatorio della mise en abyme (raccordo tra dimensioni diverse, tra l’altrove e il reale: momento rivelatorio e di sospensione diegetica), evoca inevitabilmente gli spettri del colonialismo, ribaltandone però le dinamiche: non è più l’uomo occidentale a dominare la scena; questo, infatti, messo di fronte al primitivo, che si rivela mostruoso, ne rimane soggiogato fino a subirne l’annientamento. E infatti a Oliver Laxe, ormai ridottosi a Re di Lattine, non resta altro che tentare d’uscire disperatamente di scena, provando a bruciarsi gettandosi contro un tramonto in fiamme:
«Come tutti i romantici, avevo sempre avuto la vaga certezza che un giorno nella mia vita sarei giunto in un luogo magico, che svelandomi i suoi segreti mi avrebbe dato la saggezza e l‘estasi – forse perfino la morte.» (Paul Bowles, Senza mai fermarsi. Un’autobiografia)
«Sento molto fortemente il lavoro di regista come lavoro fisico, dico sempre che fare film è un esercizio atletico. Non è una questione intellettuale. Lo sento proprio come un lavoro manuale. […] Lo intendo come un lavoro artigianale e mi piace, e faccio volentieri ciò che di veramente artigianale c’è in esso. […] Per Aguirre ho costruito io stesso le zattere, per avere la sensazione fisica della zattera, e per capire nel modo giusto bisogna davvero attraversare le rapide pericolose e sentirsi nel pericolo autentico. Se si ha una sensazione fisica, questa viene automaticamente trasposta nel film. Così è stato per me. Non parto da un qualunque modello accademico di finzione che poi sviluppo sul posto. C’è al contrario la vita vissuta, lì dentro. Nei miei film c’è sempre qualcosa del genere». Werner Herzog
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