THE SADDEST MUSIC IN THE WORLD (SubITA)

Titolo originale: The Saddest Music in the World
Nazionalità: Canada
Anno: 2003
Genere: Commedia, Musicale, Vsionario, Sperimentale
Durata: 100 min.
Regia: Guy Maddin

Nell’inverno gelido del 1933, in una Winnipeg dominata dalla Grande Depressione, Lady Port-Huntly (Isabella Rossellini), ferita e astuta baronessa della birra, indice un concorso: chi suona la musica più triste al mondo riceverà 25.000 dollari. Riceve partecipazioni crude da ogni angolo del pianeta — da Mariachi infranti a cellisti velati — mentre un’idea di fiera ebrezza e disperazione si fonde con i fantasmi privati dei suoi cittadini. Tra amori perduti, protesi di vetro piene di birra e melodrammi familiari, la tristezza diventa follia rituale.

Qui non si entra: si precipita. Maddin apre la botola della malinconia e ci lascia cadere in una Winnipeg crepata, filmata come un reperto archeologico proiettato da una lanterna magica ubriaca. La grana dell’immagine è un manto nevoso che non smette di cadere; il bianco e nero, graffiato come un vinile d’epoca, è il vero protagonista: un esorcismo ottico che rende il presente un sogno antico.

Lady Port-Huntly — icona baronessa, amputata, trionfale — trasforma il lutto in spettacolo e l’intimità in mercato. Le sue protesi di vetro piene di birra sono il simbolo perfetto di questo mondo: il dolore esibito, illuminato, reso merce, bevuto a grandi sorsi sotto l’applauso della folla. Il concorso diventa una fiera espressionista dove trombe funebri si sfidano a colpi di orchestra, fisarmoniche grondano come piogge acide e valzer stonati si contorcono in coreografie da obitorio. Ma dietro il kitsch scintilla una geometria morale: la tristezza come valuta, la memoria come debito, l’amore come titolo tossico.

Maddin costruisce i personaggi come maschere alchemiche: il musicista coperto di veli che sembra un revenant venuto dai Balcani; l’impresario seduttore pronto a rimontare il passato come un numero da vaudeville; la donna smemorata che abita l’istante come fosse una preghiera. Sono figure-talpa che scavano nel sottosuolo del melodramma fino a dissotterrare ciò che preferiremmo non ascoltare. La messinscena, tutta tendaggi, nebbie, riflessi in vetro opaco, è una cattedrale sgangherata dove ogni nota risuona come una confessione.

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La regia lavora per apparizioni e cancellazioni. Ogni inquadratura è un talismano: ottiche deformanti, iridi che si chiudono come palpebre cosmiche, flash di colore che irrompono come febbri (piccoli sacrilegi cromatici nel regno del monocromo). Non esiste continuità rassicurante: il montaggio salta, inciampa, morde, imita il modo in cui il ricordo strappa e ricuce. La colonna sonora, somma di canti funebri reinventati e melodie da baraccone, ci ipnotizza come una filastrocca per adulti spaventati.

Eppure, sotto la carnevalata, pulsa una dottrina. Il film mette a processo la nostra fame di catarsi prefabbricata: vogliamo piangere, ma a tempo; vogliamo soffrire, ma in sicurezza; vogliamo la tragedia, purché sia instagrammabile ante litteram, con protesi di cristallo a rifrangere la lacrima come un gioiello. È qui che il cinema di Maddin diventa veramente spirituale (e ferocemente politico): il dolore non è un bene di consumo; ogni volta che proviamo a metterlo in gara, ci ritorna addosso come neve nera.

C’è un’ironia sadica, ma anche una misericordia segreta: i personaggi non sono mostri, sono fedeli confusi in un culto che venerano senza capirlo. La gara, via via, esonda nel privato; il teatro si apre come uno stomaco e rigurgita il rimosso. Il passato, con le sue colpe e i suoi incidenti, riemerge tra una fanfara e un bicchiere di lager, e la risata si blocca in gola.

Se esiste una morale, è vertiginosa: la tristezza non ha nazione, non ha bandiera, non vince. La tristezza è un animale sacro che non si lascia addomesticare. Maddin lo sa e ci lascia con un’immagine che sfrigola ancora dopo i titoli: tra neve, vetro e birra, l’umanità balla la sua danza zoppa e splendida. E noi, complici.

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By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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