THE MIRROR [SubITA]

Titolo originale: Zerkalo
Paese di produzione: Russia
Anno: 1975
Durata: 107 min.
Genere: Biografico, Drammatico, Visionario
Regia:

Dice il regista: “Il protagonista è un uomo sui quarant’anni che si sforza di fare un bilancio della vita precedente… Sullo schermo vanno avanti di pari passo tre storie: la prima è costituita dai ricordi dell’infanzia; la seconda è composta delle cronache di avvenimenti storici vissuti e compresi sotto un’angolazione prettamente individuale; la terza è formata da ragionamenti psicologici che sono un po’ la sintesi di tutto il discorso”.

Con Lo Specchio (1975) Andrej Tarkovskij sussume e supera il linguaggio dei suoi film precedenti. Se già aveva sperimentato con libere digressioni, immagini oniriche e flusso di coscienza, con questo coraggioso lavoro si libera dalle connessioni che ancora lo legavano ai generi – al film di guerra con L’Infanzia di Ivan (1962), al racconto storico con Andreij Rubliov (1966) o alla fantascienza con Solaris (1972) – e intraprende un percorso ancor più ermetico, completando inoltre la rottura politica le cui prime avvisaglie già emergevano dal ritratto della giovane psiche martoriata del protagonista del suo primo lungometraggio.

Per la prima volta nella sua carriera Tarkovskij mette in qualche modo se stesso al centro di una propria opera – i cui elementi autobiografici sono tutt’altro che latenti – e concentra il suo sguardo tanto sul proprio rapporto fragile e sempre più distaccato con la società sovietica, con le gerarchie del potere ideologico, con la sua stessa identità di cittadino e artista; quanto sulla propria vicenda umana e familiare. Lo Specchio in cui si guarda il regista diventa così il ritratto di un’identità smarrita, che cerca una catarsi nella riflessione sul senso del tempo, e sul modo in cui questo giochi con le vite degli individui e dei popoli. Ecco perché Lo Specchio per Tarkovskij è un’opera spartiacque, un passaggio ineludibile che cambierà per sempre la sua filmografia.

IL RIFLESSO DI ALEKSEJ
Il film non ha una trama tradizionale, ma è piuttosto un montaggio non lineare di vari momenti della vita del protagonista Aleksej, che incontriamo adolescente nel 1935 ma che ritroviamo anche durante la guerra e poi negli anni ’60 e ’70. A queste libere divagazioni biografiche, nelle quali il ruolo della presenza femminile è fondamentale, sono alternati momenti onirici e simbolisti ma anche momenti importanti per la storia della Russia, in un flusso in balia del quale lo spettatore è abbandonato senza alcuna indicazione precisa.

La pellicola inizia, non a caso, con un ragazzo balbuziente in cura da una terapista che cerca di utilizzare la tecnica dell’ipnosi per fargli ritrovare la linearità della parola. L’incapacità di dire è ovviamente anche l’incapacità del cineasta di conquistare una visione chiara e definita di ciò che lo circonda. È un preambolo necessario che dà lo slancio a Tarkovskij per elaborare il concetto di “specchio”, quella superficie in grado di riflettere il mondo che ci consente di avere un punto di osservazione attento e concentrato, una lente d’ingrandimento dei nostri ricordi e dei fantasmi imprigionati in essi. In questo caso ad usare lo specchio, ovvero la rievocazione per immagini e riflessi, è il protagonista Aleksej (alter di Tarkovskij), che ormai in fin di vita delinea un bilancio della propria esistenza attraverso un racconto parallelo e intrecciato di due vicende del proprio passato: da una parte il legame con la madre quando ancora era un bambino e dall’altra la separazione con la moglie e il quando ormai Aleksej è un uomo maturo.

VITE REPLICATE
Tutto il lungometraggio procede dunque per rifrazioni e riverberi, proprio come se lo specchio tarkovskijano diventasse anche un fulcro stilistico, come se fosse irrimediabilmente frammentato in mille pezzi. I piani sequenza tipici del regista sono fluidi e sinuosi, le inquadrature si concentrano sui corpi assenti (con molti dialoghi fuori campo) e finiscono per posarsi spesso sugli oggetti più che sui soggetti. La macchina da presa di Tarkovskij qui funziona esattamente come la nostra memoria: mostra e omette attraverso un’atmosfera malinconica, dettata anche dal cambiamento della fotografia (come l’utilizzo del color seppia o del bianco e nero), capace di alternare presente e passato, menzogna e verità, realtà e immagini oniriche.

In questo mosaico di frammenti mnemonici con il quale Tarkovskij cerca di attraversare lo “specchio”, il piano temporale si fonde e si confonde, coinvolgendo perfino gli attori: Margarita Terekhova interpreta infatti sia la figura della madre che della moglie di Aleksej, mentre il giovane Ignat Daniltsev impersona sia l’Aleksej adolescente ma anche il di Aleksej maturo. Rimandi del passato nel presente e viceversa, in un circolo perpetuo dove affetti e abbandoni, sbagli e errori, si replicano proprio come le visioni dello specchio. Come se non bastasse ad inizio film viene recitata una poesia di Arsenij Tarkovskij ( del regista) e anche la vera madre del cineasta russo, Maria Višnjakova Tarkovskaja, compare nelle scene finali.

L’UOMO E LA STORIA
Siamo insomma di fronte ad un lavoro incredibilmente complesso sul concetto di memoria, di tempo e di identità; temi intimi ma anche universali. Perché, oltre ai riferimenti autobiografici, Tarkovskij inserisce nella pellicola anche immagini di repertorio: la seconda guerra mondiale, la presa dell’armata rossa di Berlino, la bomba atomica, la guerra civile spagnola. La storia è come la vita di ognuno di noi, è incapace di vedere se stessa senza commettere gli stessi errori. In quest’ottica la riflessione sul ruolo della propria patria è sottile ma spietata, perché anche l’Unione Sovietica sembra aver perso il ricordo delle proprie radici, proprio come un adulto si dimentica della propria infanzia. Ad esempio, quando si cita una lettera di Puškin, la Russia viene ricordata come lo spartiacque fra e oriente, punto di incontro fra il cristianesimo e tradizione slava. È un sintomo evidentissimo del Tarkovskij che sta iniziando a guardare all’idea religiosa come via di fuga ideale rispetto alle ambiguità del presente, un segnale potenziato ulteriormente verso il finale quando un uccellino volerà via dalla mano dell’Aleksej morente: ecco lo slancio spirituale in cui l’animale-uomo, non potendo governare la storia e la propria vita materiale, decide di farsi spirito, di trascendere dalla realtà. Dopotutto, come dicevamo, Lo Specchio è il film dell’emarginazione politica per Andrej Tarkovskij e la sua incomprensibilità agli occhi del Goskino (l’ente statale incaricato di coordinare e organizzare l’attività cinematografica in Unione Sovietica) sancì il definitivo distacco dal regime sovietico. Questo lavoro, distribuito in poche copie, relegò il regista alla marginalità in patria.

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Ma sta proprio qui l’incredibile potenza di questa opera, ermetica ma capace di sviluppare un rapporto unico e magico con le singole individualità che si avvicinano ad essa. Lo stesso Tarkovskij, nel suo libro Scolpire il tempo – Riflessioni sul cinema, apre il volume con alcune inviategli dal suo pubblico, che testimoniano quanto proprio Lo Specchio sia stato il suo lungometraggio che più ha colpito l’immaginario di chi lo ha visto. Come gli scrisse un’operaia di Novosibirsk: “Tutto ciò che mi tormenta, che mi manca, di cui ho nostalgia, che mi indigna, che mi nausea, che mi soffoca, che mi illumina e mi riscalda, di cui vivo e mi uccide, tutto questo l’ho visto nel Suo film, come in uno specchio. Per la prima volta un film è diventato per me realtà, ecco perché vado a vederlo: vado a vivere dentro di esso”. Sono forse proprio le parole di una semplice spettatrice – non a caso citate dal cineasta – a racchiudere perfettamente il senso di quest’opera imprescindibile.

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By Anam

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