THE INUGAMI FAMILY (SubITA)

Titolo originale: Inugami-ke no ichizoku
Paese di produzione: Giappone
Anno: 1976
Durata: 146 minuti
Genere: Drammatico, Thriller
Regia: Kon Ichikawa

Sinossi:
Alla morte del potente e temuto industriale Sahei Inugami, la sua famiglia si riunisce nella villa ancestrale per ascoltare la lettura di un testamento tanto bizzarro quanto crudele. Le condizioni imposte dall’anziano patriarca sono un labirinto di clausole simboliche, enigmi e provocazioni che mettono i membri della famiglia gli uni contro gli altri. L’arrivo del detective privato Kosuke Kindaichi coincide con l’inizio di una serie di omicidi rituali, messi in scena secondo immagini araldiche e ossessioni del defunto. Mentre i cadaveri si accumulano, la villa degli Inugami si trasforma in un teatro chiuso, soffocante, dove il passato, il sangue e il desiderio di potere si intrecciano in modo inestricabile.

Recensione:
The Inugami Family è un film che sembra nascere da una maledizione più che da una sceneggiatura. Kon Ichikawa costruisce un’opera che usa la struttura del giallo classico come un cavallo di Troia, infilando al suo interno una riflessione ferocissima sulla famiglia, sull’eredità, sul peso del sangue e sull’impossibilità di sfuggire ai fantasmi che ci precedono. Non è semplicemente un “whodunit”: è un rituale di smascheramento, un’operazione chirurgica eseguita su un clan che marcisce dall’interno.

Fin dall’inizio, il film stabilisce un’atmosfera di oppressione elegante. La villa degli Inugami non è solo un luogo fisico, ma una mente collettiva, un archivio di colpe, desideri repressi e rivalità mai risolte. Ogni stanza sembra trattenere un segreto, ogni corridoio risuona di passi che non portano da nessuna parte. Ichikawa filma questi spazi con una precisione quasi maniacale, trasformando l’architettura in un’estensione della psiche dei personaggi. Nulla è neutro: tutto osserva, tutto giudica.

Il testamento di Sahei Inugami è uno degli atti più sadici mai concepiti nel cinema di genere. Non è un semplice documento legale, ma una trappola simbolica, un gioco di potere postumo che costringe i vivi a danzare secondo le ossessioni del morto. Sahei continua a governare la famiglia dalla tomba, come un dio vendicativo che ha deciso di trasformare l’eredità in una prova iniziatica. Il suo gesto non è solo crudele: è profondamente rivelatore di una concezione del mondo basata sulla gerarchia, sul possesso, sulla competizione come unica forma di relazione possibile.

Kosuke Kindaichi, interpretato da un magnifico Koji Ishizaka, è una figura apparentemente fuori posto. Con il suo aspetto dimesso, il cappello stropicciato, i modi gentili e distratti, sembra quasi un errore di casting in mezzo a tanta teatralità. E invece è proprio questa discrepanza a renderlo centrale. Kindaichi non è un detective onnisciente: è un osservatore, un raccoglitore di segnali, un uomo che ascolta più di quanto parli. La sua indagine non è solo logica, ma intuitiva, quasi medianica. È come se percepisse le correnti sotterranee di rancore e paura che attraversano la famiglia.

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Gli omicidi, messi in scena con un gusto visivo disturbante, hanno una qualità rituale che li avvicina più al mito che al crimine. Le immagini dei cadaveri, disposti secondo simboli che rimandano allo stemma degli Inugami, colpiscono per la loro compostezza glaciale. Ichikawa non indulge mai nel gore gratuito: la violenza è composta, quasi astratta, e proprio per questo risulta ancora più inquietante. Ogni morte sembra un atto necessario, una tappa di un percorso già scritto, come se il destino stesse semplicemente reclamando ciò che gli spetta.

Il film lavora in modo magistrale sul tempo. Il passato incombe costantemente sul presente, non come ricordo nostalgico, ma come ferita aperta. Le vicende della guerra, gli amori proibiti, le umiliazioni mai dimenticate: tutto ritorna, tutto esige un pagamento. Ichikawa suggerisce che la famiglia Inugami non è vittima di una serie di eventi sfortunati, ma di una logica interna distruttiva, una struttura fondata sull’esclusione e sulla sopraffazione. Il sangue non unisce: separa.

Visivamente, The Inugami Family è di una raffinatezza quasi crudele. I colori sono controllati, i movimenti di macchina misurati, le composizioni rigorose. Ogni inquadratura sembra pensata come un quadro, ma un quadro che nasconde una crepa. La bellezza formale non è mai rassicurante: è una superficie lucida sotto la quale fermenta qualcosa di marcio. Ichikawa usa l’eleganza come una lama, non come un ornamento.

C’è anche una dimensione profondamente culturale nel film, che va oltre il semplice contesto giapponese. La famiglia Inugami diventa un archetipo universale: il clan come entità che divora i suoi membri, la tradizione come strumento di controllo, l’eredità come maledizione. Ichikawa sembra suggerire che ogni sistema chiuso, ossessionato dalla purezza e dalla continuità, è destinato all’autodistruzione. Il giallo diventa così una parabola morale, quasi una tragedia classica mascherata da intrattenimento.

Man mano che la verità emerge, non c’è liberazione. La soluzione dell’enigma non porta sollievo, ma un senso di vuoto ancora più profondo. La giustizia, se arriva, è fredda, insufficiente, incapace di riparare ciò che è stato distrutto. Ichikawa non offre consolazioni: smonta il meccanismo e lo lascia a vista, come un motore fumante che ha appena smesso di funzionare.

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The Inugami Family è un film che cresce lentamente, che richiede attenzione, pazienza, disponibilità a entrare in un mondo regolato da leggi proprie. Ma una volta dentro, è impossibile restarne immuni. È un’opera che parla di potere, di identità, di colpa ereditaria con una lucidità spietata. Un giallo che non vuole solo intrattenere, ma scavare, fino a raggiungere quel punto scomodo in cui ci si rende conto che il vero mostro non è l’assassino, ma la struttura che lo rende inevitabile.

Alla fine, ciò che resta non è il mistero risolto, ma la sensazione di aver assistito a un’autopsia familiare. Ichikawa apre il corpo degli Inugami, ne mostra gli organi corrotti, e poi richiude tutto senza pietà. Un cinema elegante, velenoso, profondamente inquieto. Un classico che continua a mordere, anche molti anni dopo la sua prima apparizione.

By Anam

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