THE EDITOR [SubITA]

Titolo originale: The Editor
Paese di produzione: Canada
Anno: 2014
Durata: 95 min.
Genere: Thriller, Horror, Commedia, Drammatico
Regia: Adam Brooks, Matthew Kennedy

Rey Ciso è stato un tempo il più grande montatore che il mondo avesse mai visto ma un terribile incidente gli ha spezzato la carriera, lasciandolo con quattro dita di legno nella mano destra e costringendolo a occuparsi solo di film pulp e trash. Quando gli attori di un film a cui sta lavorando cominciano a essere assassinati, Rey diventa il sospettato numero uno ed è costretto a muoversi per dimostrare la propria innocenza, mentre una verità sinistra continua ad aggirarsi in agguato dietro le quinte.

The Editor è un film che non c’è. È un concetto, semmai, un’idea espansa come con il mastice, che prende alcune cose giuste e nobili della nostra cultura, quella del bis, del cinema di genere, e le gonfia, le riempie, le fa diventare grosse ed ingombranti. Non è un caso che i registi di questa roba, tali Adam Brooks e Matthew Kennedy, siano canadesi, cioè persone che il cinema nostro lo hanno più visto che vissuto, lo hanno conosciuto senza esperirlo in prima persona, e che qui allora, come commovente atto d’amore, ne costituiscano una spensierata galleria di riflessioni. Non è la prima volta che ci provano, perché costoro fanno invero parte di una sorta di collettivo di produzione, l’Astron-6, che negli ultimi anni ha messo in cantiere cose matte e disperatissime come Father’s Day (2011) o The Void (2016, quest’ultimo co-diretto da tale Jeremy Gillespie che in The Editor si occupa invece di musica). Lì, in The Void, qualcuno lo ricorderà, c’era il tentativo di far rivivere L’aldilà (1981) di Fulci, anzi di approfondirne le idee, di sperimentare le più lisergiche intuizioni attraverso quello che, in Fulci, meritava il generico appellativo di delle tenebre: il Mistero, l’Assoluto, l’ che si palesava tanto nel capostipite quanto nel suo tributo sotto forma del grande e indefinibile Nulla.

The Editor è invece meno serioso, punta al ribasso, è giocoso volutamente e volutamente fa, seppur in modo grezzo e sciocco, del metacinema. È un concetto desueto, il metacinema, perché incendiava le generazioni passate, quelle che pasteggiavano con Wenders e che, nelle versioni più tralignate, puntavano su Bava e il primo Cronenberg. Adesso è come una larva che resta imbozzolata nel suo letargo, e di tanto in tanto si degna di spuntare fuori con qualche gioco a scatole cinesi, una citazione dentro una citazione che prelude, probabile ma non sempre certo, a qualcosa di più profondo. Il duo di filmmaker che ritroviamo in questa pellicola inscena proprio tale necessità, riflette su un certo tipo di cinema, estinto e storicizzato, attraverso la figura non di un regista ma di un montatore (lo stesso Adam Brooks) che ha perso le dita della mano destra per un assurdo incidente. Adesso sta lavorando a un film “di genere” per un regista di nome Francesco Mancini, quando d’improvviso un serial killer vestito come in Sei donne per l’assassino (1964) comincia a fare mattanza di tutti coloro che calcano il claustrofobico perimetro del set. È soltanto il preludio di un meccanismo di smontaggio del genere, che lento e inesorabile perde pezzi, i quali, come insetti nel mirino di un entomologo, finiscono sviscerati in tutte le loro fogge, nelle dimensioni e finanche nel peso. Brooks e Kennedy conchiudono la loro opera idea nello spazio di un set, cioè un set (reale) che inscena un set (metaforico) su cui si fa del cinema. E proprio come lo spazio infinito e infinitamente scomponibile che divide “Achille dalla tartaruga”, anche questo spazio si riempie di sottounità, di sotto-concetti, di sottomultipli.

Ogni sguardo in The Editor è una citazione, ogni momento un déjà-vu, qualsiasi incontro un riferimento alla nostra nobile patria. Una ragazza, testimone del delitto e perciò preda di una cecità psicosomatica, si palesa come la Cinzia Monreale del già citato L’aldilà: occhi bianchi e volto di spettro. Un inseguimento automobilistico ricorda Quando Alice ruppe lo specchio (1988), una scena di ballo Murderock – Uccide a passo di danza (1984) mentre uno sbudellamento con tanto di giocosa torsione delle intestina pare sbucata fuori dall’argentiano La terza madre (2007). Più ci si addentra nelle impudiche viscere della pellicola, più le pareti si scompongono, rivelando una fugace impalcatura che rinuncia alla sceneggiatura ma sottolinea le idee, i concetti prismatici che le idee le illuminano, le innervano e permettono loro di vivere. Il poliziotto, baffuto e con il dolcevita come negli anni settanta (interpretato, questi, dall’altro regista, Matthew Kennedy), ha il solo compito di rappresentare la propria funzione, o per sineddoche il intero, il poliziottesco. Poi abbiamo Paz de La Huerta, la moglie del regista; Udo Kier, un direttore di manicomio che resuscita dalla naftalina della sua caverna. A sproposito, come tutto del resto. E via discorrendo, di citazione in citazione, di in genere, il giallo, l’horror, il poliziesco, fino a quando altro non resta che lo stesso Nulla su cui i due registi hanno cementificato le premesse della loro creatura. The Void. Il vuoto.

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By Anam

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