TAIPEI STORY (SubITA)

Titolo originale: Qing mei zhu ma
Paese di produzione:
Anno: 1985
Durata: 119 min.
Genere: Drammatico
Regia: Edward Yang

Presentato al Cinema Ritrovato, Taipei Story rappresenta l’altra faccia della taiwanese, quella di Edward Yang, anche se l’altro autore simbolo, Hou Hsiao-hsien, compare come co-sceneggiatore, produttore e attore protagonista. Una visione alienante sulla capitale dell’isola in quel contesto storico e sociale, come il cinema dell’epoca – e anche quello successivo – ha saputo dare.

Città ancora dolente
Lung è un ex-giocatore di baseball che ora lavora nel settore dei tessuti. Chin lavorava come assistente di una manager di successo ma deve cercar lavoro dopo il passaggio di proprietà dell’azienda. Lung e Chin hanno una relazione che si incrina quando lei scopre che lui è stato a Tokyo a trovare una sua precedente compagna. [sinossi]

Opera caposaldo della taiwanese, Taipei Story rappresenta lo sguardo di Edward Yang anche se, come spesso succede nelle nouvelle vague, i vari autori cooperano, sentendosi parte di un gruppo, di una corrente. Così anche qui abbiamo l’altro cineasta cardine di quella generazione cinematografica, Hou Hsiao-hsien in qualità di co-sceneggiatore, produttore e attore protagonista. Ma rispetto al collega, la visione del cinema di Edward Yang appare sensibilmente differente.
Tapei Story, visto al Cinema Ritrovato nel restauro della Cinematek di Bruxelles, racconta dei personaggi della città capitale di Taiwan, con le loro storie, i loro problemi, il loro essere sospesi in una società in profonda trasformazione, con influenze verso gli Stati Uniti e il Giappone. La visione di Taipei comprende, in una scena di strada, un paesaggio di campagna che dirada nella conurbazione suburbana. Una città dolente per altri versi, rispetto alla sua storia così come poi è raccontata nel celebre film di Hou Hsiao-hsien. Taipei infatti sembra come vittima di un ‘sacco’ con i suoi palazzoni anonimi, il traffico caotico, le automobili, i motocicli, i treni, i muri rivestiti di graffiti, i convenience store, le luci al neon. “Una volta c’era un teatro, un fruttivendolo e non c’erano così tante macchine” osserva un anziano.
Un caos cristallizzato nell’immagine sui titoli di coda: la strada con le macchine viste nel riflesso deformante della parete di un edificio a specchi. Un mondo di facciata, falso, come per la ragazza che, per dipingersi le unghie non potendo permettersi lo smalto, utilizza un pennarello, un surrogato. Lo stesso architetto che ha progettato tanti di quei palazzoni, confessa di non saper distinguere i suoi edifici dagli altri.

In generale Edward Yang ci mostra una situazione di omologazione, che non è solo urbana. Quando Chin e i suoi colleghi sbirciano dalla tapparella il gruppo di manager della società che ha rilevato la loro azienda, uno di loro pensa che il capo sia quello con gli occhiali senza accorgersi che tutti quanti portano gli occhiali. Sono dei soldatini anonimi, pedine di un gioco complesso, all’interno di un sistema capitalista selvaggio, dove emerge anche l’ombra della corruzione. Non è un problema acquistare una società che abbia dei processi pendenti.
Edward Yang racconta – con una narrazione piatta, con un principio di quello stile ‘denarrativizzato’ che avrebbe poi adottato, portandolo all’estremo, Tsai Ming-liang – storie di vite in situazioni di stallo, di precariato non solo lavorativo, metafora della più generale condizione di un paese all’epoca oggetto del contendere tra oriente e occidente. L’Isola di Formosa dove hanno ripiegato i nazionalisti cinesi del Kuomintang, peraltro soggiogando la popolazione indigena. Sospesa tra gli Usa che la foraggiavano abbondantemente per farne un modello propagandistico di società capitalista e la Cina Popolare che l’ha sempre reclamata. E dove aleggia sempre l’ombra del Giappone, ex-dominatore coloniale. Un paese sempre in tensione in cui vigeva la legge marziale e l’iconografia del capo di stato (di cui vediamo un ritratto che campeggia in un luccicante palazzo presidenziale sempre illuminato a giorno).
Così abbiamo Lung che oscilla tra due donne: Chin, con la quale coltiva il sogno di trasferirsi in America, e Gwan che vive a Tokyo e che reincontra nella capitale giapponese sfruttando uno scalo del suo volo di ritorno dagli Stati Uniti. “Tokyo è stato solo uno scalo”, racconta per sviare ogni sospetto. Ma si scoprirà ben presto che non si è trattato di un semplice transito. Il Giappone risulta ancora ingombrante nella vita degli abitanti dell’isola. La sorella minore di Chin sogna invece il paese del Sol Levante, e gli spot pubblicitari in giapponese rappresentano qualcosa di più di una curiosità, forse un modello.

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Chin è invece l’esempio di una donna manager di successo, assistente personale di un’altra donna di potere, la signora Mei scalzata dal suo trono ma pronta a occuparne uno nuovo, come in un modello di matriarcato anti-confuciano. La stessa psicologia di Chin appare il risultato di uno stallo tra i genitori: si faceva picchiare dal padre per proteggere la madre. Alla fine la signora Mei le proporrà un incarico nella sua nuova società, definita come un pezzo di America a Taipei, che rende inutile un trasferimento, con il relativo miraggio economico, negli States. Un’America simboleggiata dal ritratto di Marilyn, che viene percepita in uno stato di Far West dove chi uccide un nero viene assolto.
Come nel cinema del collega Hou Hsiao-hsien, in Taipei Story sono fondamentali i giochi, il baseball, visto in tv ma giocato anche dentro casa, il gioco con la palla dei bambini nel parchetto, le freccette, le partite. Ne sono intenti perennemente i personaggi, come nelle situazioni conviviali, nel loro immobilismo esistenziale, nel loro perenne stato di indecisione. Sembrano avvolti in un’atmosfera cechoviana, come quei personaggi “intenti a mangiare, bere, amare, camminare, a portare la propria giacca” ritratti dallo scrittore russo in dacie di campagna con il richiamo ricorrente a o San Pietroburgo. La Taipei di Edward Yang è un mondo dove è stato da poco reciso il suo giardino dei ciliegi, che ha irrimediabilmente perso la sua innocenza. La tensione latente infine sfocia nella rissa e nel sangue che esce dal fianco di Lung, ferito da una coltellata. Incurante, ridacchia e fuma. Ancora non piange come farà la protagonista di Vive L’Amour: la desolazione metropolitana proseguirà.

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