
Titolo originale: Sauvages
Paese di produzione: Svizzera, Francia, Belgio
Anno: 2024
Durata: 87 min
Genere: Animazione, Avventura,
Regia: Claude Barras
Sinossi:
A Bornéo, al confine della vasta foresta tropicale, la giovane Kéria accoglie un cucciolo di orang-outan scoperto nella piantagione di palma da olio dove lavora suo padre. Nel frattempo il suo giovane cugino Selaï, in fuga dal conflitto che oppone la sua famiglia nomade alle compagnie forestali, trova rifugio da loro. Insieme — Kéria, Selaï e il singolare piccolo Oshi — affronteranno ostacoli, scelte e rivelazioni nella lotta per proteggere la loro foresta ancestrale, e nel percorso Kéria scoprirà la verità sulle proprie origini.
Recensione:
Sauvages si apre come un sussurro e chiude come un urlo: un film d’animazione che non risparmia la sua rabbia, eppure lo fa con la delicatezza di un filo d’erba che resiste alla motosega. Claude Barras — già autore del bellissimo Ma vie de Courgette — qui percorre i sentieri più impervi della sua personale visione del cinema: la stop-motion come pratica religiosa, l’animazione come attivismo silenzioso, l’infanzia come soglia del sacro e del disastro.
La scelta del setting — una piantagione di palma da olio al margine della foresta di Bornéo — non è un semplice paesaggio esotico: è un campo di battaglia spirituale. La foresta non è solo sfondo, è protagonista, testimone e martire. Kéria, Selaï e l’orang-outan Oshi diventano un triangolo simbolico: la bambina che vuole salvare, il bambino che vuole fuggire, l’animale che non ha scelta. Insieme incarnano la tensione tra il moderno che distrugge e il primordiale che resiste.
Visivamente, il film è un capolavoro di artigianato: la stop-motion restituisce la fisicità delle marionette, la texture dei materiali, la traccia della mano che anima. Ogni sguardo di Kéria, ogni posa di Selaï, ogni movimento di Oshi porta con sé la memoria della fatica, della cura, del tempo che scava. Il lavoro visivo affonda nella materia: legno, stoffa, polvere, luce filtrata… Tutto vibra di presenza, di lotta. Ed è nella lotta che il film scopre la sua forza più intima: non in facili redenzioni, ma nel riconoscere che essere “sauvages” — selvaggi — oggi significa semplicemente non arrendersi.
Barras non teme la complessità. Il film parla della distruzione della foresta, della violenza coloniale delle grandi compagnie, della perdita di radici, della vergogna moderna. Ma lo fa senza diventare sermone: la lotta si racconta attraverso sguardi, gesti, piccoli furti di libertà, e il ritmo rimane quello dell’avventura, del sogno, del cammino verso il buio per trovare un frammento di luce. Non c’è moralismo facile, c’è poesia militante.
Kéria è un personaggio che vibra: vive tra due mondi, quello della città della piantagione e quello della foresta delle origini. Il suo rapporto con Oshi è tratto con semplicità potente: l’orang-outan non è solo simbolo ecologico ma specchio di Kéria, della sua ribellione, della sua innocenza ferita. Selaï, invece, è il contrappunto: nomade, ferito, in fuga. La sua presenza introduce una frattura nel racconto, un conflitto interno che rende la fábula ancora più vera. E la foresta, infine, è corpo vivo: radici che cantano, tronchi che piangono, animali che osservano, silenzi che gridano.
La sceneggiatura, firmata da Barras insieme a Catherine Paillé e altri, costruisce un equilibrio perfido: l’innocenza infantile e la brutalità del mondo coesistono senza rassicurazioni. La modernità non è rappresentata come progresso, ma come predazione: la grande industria taglia, consuma, dimentica. Il film ci chiede: chi sono i veri selvaggi? Chi abita la foresta o chi la distrugge? In questo senso Sauvages è un invito a ribaltare lo sguardo, a guardare da un altro lato della catena, a riscoprire la responsabilità, l’appartenenza, la resistenza.
Il risultato è un film che tocca tutte le età: si può vedere da bambini — c’è avventura, scoperta, amicizia — e da adulti — c’è ferita, memoria, angoscia esistenziale. Barre di luce e ombra, risate e lacrime, martelli non-usati ma sentiti. In un mondo sempre più digitale e distante, la scelta della stop-motion diventa atto politico: affermare che l’arte è fatica, cura, rispetto. E qui il rispetto va alla gestualità degli animatori, alle comunità Penan di Bornéo, alla terra e al futuro.
In definitiva, Sauvages non è solo un film sull’ecologia. È un film sull’appartenenza, sulla gratuità del prendersi cura, sulla fragilità della vita che resiste. È un blu-verde che sanguina, un grido di speranza che non nasconde la paura. E soprattutto, è la conferma che il cinema d’animazione può — e deve — essere arioso come un albero gigante, feroce come una radice che frattura l’asfalto.
