Titolo originale: Rester vertical
Paese di produzione: Francia
Anno: 2016
Durata: 98 min.
Genere: Commedia, Drammatico
Regia: Alain Guiraudie
Léo sta cercando un lupo su un vasto altopiano della Lozère quando incontra una pastorella, Maria. Pochi mesi dopo, hanno un bambino. Afflitta per il bambino, e senza fiducia in Léo che va via e poi ritorna senza preavviso, ella abbandona entrambi. Léo è lasciato solo con un bambino sulle braccia. Nel frattempo, non lavora molto, affondando progressivamente nella miseria.
“Una lunga linea dritta, giorno”.
Inizia cosi’ la sceneggiatura mai scritta di Léo, narratore senza più storie (lineari) da raccontare, padre di un figlio che non smette mai di piangere e di una poetica che potrebbe cristallizzarsi in “formula”. E cosi’ inizia il quinto lungometraggio di Alain Guiraudie: un’auto percorre una strada di montagna immersa nel verde; sul ciglio, a pochi secondi di distanza, si palesano due figure opposte: un giovane, dal volto pasoliniano, che non vuole fare cinema, e un vecchio scorbutico, che starnazza come un critico incartapecorito gli ultimi giorni di un festival cinematografico di fine estate. Desiderio e paura. Paura di morire, desiderio di vivere. E viceversa.
Fin dai primi minuti, Rester vertical esibisce il suo sfondo e affondo: una tabula rasa, tra il cielo e la terra. Cancellare tutto, fuggire, alla ricerca di nuove linee, di nuovi orizzonti. Ricominciare da zero, per non soccombere ad un talento che, somma fortuna e massima sfortuna, è stato ampiamente riconosciuto. Ma come colmare un vuoto ricercato? Fuggendo, altrove. Avanzando, per sfuggire alla presa e al Sistema, che vorrebbe storie lineari. Partendo, lontano, in Lozère, ad osservare i lupi. In Lozère, Léo et Alain trovano la loro cine-palingenesi: il racconto di una rinascita nel simbolo, nella metafora, nella quasi assoluta verticalità.
Un ritorno arduo, complesso, quello di Guiraudie, dopo il trionfo di pubblico e di critica de L’inconnu du lac. Come Léo, Alain ha “partorito”, nel corso degli anni, una poetica precisa e coerente; un universo popolato di reietti, di freak, che uccidono ciò che amano. Dopo i fasti del Lago, tale poetica della marginalità era ad un passo dal divenire, come il figlio inatteso di Léo, un fardello ingombrante ed auto-annichilente. Occorreva quindi sacrificarla, come un capro, sull’altare del rinnovamento. Liberarsene per non rimanerne schiacciato, darla in pasto ai lupi.
Due linee, due slanci. Da un lato: la necessità morale di continuare ad alimentare un’idea di cinema “altra”, che miri in alto, che faccia interagire realismo ed idealismo, veicolando simboli, proponendo una riflessione metaforica, poetica e poietica, sul “fare cinema”. Dall’altro il vincolo, il mandato, l’obbligo di narrare, di produrre senso (comune), di incanalare il racconto nell’alveo del sistema produttivo dominante, che finanzia. Da qui il dilemma: accettare il compromesso col sistema, che ci foraggia e ci soffoca, che ci insegue e ci pedina, imponendoci delle direttive e delle linee guida (orizzontali, ovviamente)? Oppure far uscire definitivamente il proprio cinema dalla prosa, facendolo “ascendere” verso vette inesplorate, perseguendo quindi una traiettoria non più orizzontale ma verticale? Rester vertical è il risultato doloroso e sublime dell’azione divergente e convergente di queste due linee, due forze che governano il cinema di Guiraudie e, più in generale, paiono reggere tutto il cinema d’autore: una forza che spinge il racconto in avanti, lungo i binari della tradizione; una forza che spinge il discorso verso l’alto. Il film tematizza questa dialettica, e propone una sua via d’uscita: obliqua, contorta, fatta di deviazioni, di impasse, di sorprendenti ritorni. E una storia altalenante, che sfugge alla “presa” pur rimanendo nel Sistema, che viaggia e avanza senza perseguire una mèta che sia diversa dalla metà-fora.
Ma Guiraudie non intende, per fortuna, parlare solo e soltanto di se stesso e del suo cinema. La metafora, verticale, implica un’universalizzazione del periplo e della lotta. Rester vertical non è, soltanto, la storia di un autore che non vuole (e non riesce più a) scrivere una storia “come si deve”, ma è un film-saggio su come il cinema potrebbe e dovrebbe essere se non trovasse più comodo adagiarsi, orizzontalmente, come un corpo morto, inerte, sul fiume del buon senso e del realismo, spesso mortifero. Invece di adagiarsi sugli allori, pericolo evidente dopo un successo inatteso e fragoroso, l’autore de Le Roi de l’évasion rigetta prima di tutto il suo stesso cinema (passato), schiva il film “confermativo”, atteso dai più, evitando cosi’ di fossilizzare il suo modus operandi e di trasformare antichi paradossi, i suoi, in nuova doxa, la nostra.
Rester vertical poteva essere il primo film alla Guiraudie di Guiraudie: un film “alla maniera di”, derivativo, impotente, sterile. È invece, grazie alla sensibilità e intelligenza di un autore davvero non integrato, apocalittico, un film “nuovo”: anomalo, spiazzante, orgogliosamente verticale, in piena “erezione”. Un film che lotta contro l’impotenza e la sterilità che il Sistema (e il successo) possono causare o addirittura auspicare (meglio essere impotenti che “folli”); che cerca costantemente di innovare, di generare, di “partorire” nuovi paradossi; che filtra con la vita in fiore e con la morte; che sprofonda nell’abisso per poi spiccare, sempre su traiettorie verticali, il volo; che si perde per non ritrovarsi o per percorrere strade nuove. Strade perdute, che non portano a niente, ma in cui c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, e restar in piedi.
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