
Titolo originale: Raigyo
Paese di produzione: Giappone
Anno: 1997
Durata: circa 75 min
Genere: Drammatico, Psicologico,
Regia: Takahisa Zeze
Sinossi:
Una donna vestita di nero uccide, quasi per caso, un uomo incontrato tramite un servizio telefonico erotico. Da quel momento inizia un vortice di colpa, alienazione e follia in un paesaggio industriale spettrale.
Raigyo è un lampo di gelo nel cuore di un incubo urbano, e Zeze è il cacciatore silenzioso che lo consegna allo spettatore. Noriko — donna in nero e inesplicabile — non è una femmina fatale: è un’anima intrappolata in un corpo che non riconosce, tradita da un desiderio che non sa guidare. Il suo omicidio non è orrore gratuito, è gesto cieco, condanna senza spiegazione, una scarica di dolore che esplode con brutalità silenziosa.
Il paesaggio circostante è un’estrazione visiva potentissima: corsi d’acqua sfruttati, fabbriche morte, cieli pieni di fumo, un mondo che respira solo per abbandonarsi all’oblio. Come dicevano i forum ribelli, Raigyo è il cinema che non ti tiene per mano, ma ti afferra per la gola e ti trascina nel suo chiaroscuro irreparabile.
Non c’è erosione narrativa, ma accumulo di percezione: silenzi infiniti, sguardi vuoti, corpi che sfiorano la catastrofe sottovoce. La sessualità c’è — è fredda, sghemba, epidermica — ma serve solo a mostrare quanto siamo già perduti prima ancora di toccare qualcuno.
Nel cuore dolente dell’opera, il “raigyo” — quel pesce velenoso che nessuno vuole mangiare — si fa emblema perfetto: qualcosa che vive fuori posto, destinato a contaminare o morire. E Noriko è proprio questo: una creatura estranea, che spaventa perché riconosciamo quel senso di inadeguatezza come nostro.
Scavando nei blog e tra i post più insoliti, si coglie un senso diffuso: Raigyo è un incubo moderno, una filastrocca tossica che racconta l’alienazione come un contratto firmato troppo presto. E quella libertà estetica, quella nudità emotiva, sono la sua salvezza — e la tua.
