
Titolo originale: Omoinotama Nenju
Nazionalità: Giappone
Anno: 2004
Genere: Grottesco, Horror, Serie TV
Stagioni: 1
Episodi: 9
Durata: 30 min. [episodio]
Ideatore: Masahiro Okano, Naoki Kusumoto, Shigehito Kawada, Toshikatsu Kubo
Sinossi:
Serie antologica di otto storie horror, ognuna collegata simbolicamente da un filo di perle da preghiera. Ciascun episodio esplora un diverso aspetto dell’orrore contemporaneo giapponese — la colpa, la paura, l’ossessione, la vendetta — intrecciando superstizione e tecnologia, tradizione e trauma moderno.
Recensione:
Prayer Beads è una raccolta di incubi che si tengono per mano. Otto segmenti, otto preghiere sussurrate a un dio distratto, otto battiti di un rosario fatto non di fede ma di ossa, carne e elettricità.
Masahiro Okano, Naoki Kusumoto, Shigehito Kawada e Toshikatsu Kubo non costruiscono un film: compongono un esorcismo audiovisivo, una liturgia collettiva in cui il sacro e il profano si dissolvono l’uno nell’altro, come incenso e sangue sullo stesso altare.
Ogni episodio è una confessione, un atto penitenziale. Ma chi si sta confessando? Gli autori? Lo spettatore? O forse il Giappone stesso — una nazione che, all’alba del XXI secolo, sembra aver perso il contatto con il proprio inconscio mitologico?
C’è in Prayer Beads una tensione tra il passato e l’iperpresente, tra la spiritualità antica e la nevrosi digitale. È l’eco di Kwaidan, filtrato attraverso un televisore rotto che trasmette pubblicità di deodoranti per l’anima.
Ogni storia è un frammento di un mosaico demoniaco:
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Un uomo perseguitato dal proprio riflesso digitale.
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Una donna che trova la redenzione nel ventre di un mostro.
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Un bambino che prega un dio fatto di cavi e ceneri.
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Un rituale di purificazione che degenera in un sacrificio performativo.
Questi racconti non cercano la paura immediata: costruiscono un’ansia che si insinua piano, come un canto buddista recitato al contrario.
C’è un tema sotterraneo che lega tutto: la dissoluzione del sé. Ogni personaggio, nel momento in cui si aggrappa al proprio dolore, diventa parte del rosario, un’altra perla infilata nel filo dell’eterno ritorno. Il titolo stesso — Prayer Beads — non evoca solo la preghiera, ma la ciclicità, il loop, la reiterazione ossessiva della colpa umana. Come se il mondo fosse un rosario rotto, e noi le sue perle sparse sul pavimento dell’universo.
Esteticamente, la serie vibra tra realismo urbano e misticismo allucinato. Gli autori pescano nel J-horror dei tardi anni ’90, ma ne svuotano i cliché, preferendo la decomposizione lenta alla paura esplosiva. Le luci al neon delle città giapponesi diventano mandala elettronici, simboli di un buddismo cibernetico, dove lo spirito sopravvive solo attraverso la connessione.
Non c’è un finale, perché non può esserci: il rosario non si spezza. Si riprende da capo.
Ogni perla è un’altra storia, un altro incubo, un altro ciclo di reincarnazione visiva.
È un cinema che medita, ma la sua meditazione è tossica, radioattiva, malata di realtà.
Nel silenzio dopo l’ultima preghiera, resta una domanda sospesa:
Chi, in fondo, sta pregando chi?
