PEACE TO US IN OUR DREAMS (SubITA)

Titolo originale: Peace to Us in Our Dreams
Nazionalità: Lituania
Anno: 2015
Genere: Drammatico
Durata: 107 min.
Regia: Sharunas Bartas

La paura mangia l’anima

In un giorno d’estate, un uomo, la sua attuale compagna e sua figlia arrivano nella loro casa di campagna per trascorrervi il weekend. Dopo la morte della madre, la figlia adolescente vive con il padre, che però si occupa poco di lei. L’uomo è stanco della sua routine lavorativa quotidiana; la sua compagna, una violinista, ha perso la gioia di vivere ed è divisa tra la musica, l’amore e la carriera. Anche se l’uomo e la si amano, la loro relazione è sul punto di naufragare. [sinossi]

Il paesaggio, la sua luce impalpabile, i suoi silenzi come strumenti di conoscenza dell’uomo e delle sue tensioni intime. La poetica lieve e potente di Sharunas Bartas torna prepotentemente sul grande schermo con Peace to Us in Our Dreams, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del 68/esimo Festival di Cannes. Ambientato in una silente e dorata estate lituana, il film segue l’arrivo di un uomo – incarnato dallo stesso Bartas – della sua nuova compagna e della figlia adolescente nella loro villa di campagna. In un paesaggio seducente e indifferente, l’incontro con i ruvidi vicini e l’amicizia della ragazzina con il giovane figlio di questi, che si aggira nei paraggi armato di un fucile sottratto ad un misterioso gruppo armato, scatenano nelle due donne una serie di domande esistenziali, tutte rivolte opportunamente all’uomo, incarnato dallo stesso Bartas.

Tra il pulviscolo di una nebbia estiva e i primi venti autunnali, tra il desiderio di perdersi in una foresta o immergersi nel lago, in cerca di un ricongiungimento con la natura, troppo a lungo tenuta ai margini di esistenze urbane frenetiche, i protagonisti di Peace to Us in our Dreams sembrano desiderare qualcosa di insondabile e inafferrabile. Qualcosa che il cinema di Bartas ci ha abituato ed esperire nel corso degli anni e che qui deflagra sullo schermo in tutta la sua spaventosa bellezza. A differenza del film precedente, Indigène d’Eurasie, dove emergeva comunque un desiderio di appoggiare la sua poetica rarefatta e pensosa ad un supporto di genere (nel caso specifico il noir), Bartas torna infatti a proporci un cinema evenemenziale, rarefatto, potente nei suoi squarci paesaggistici, il cui fascino si fa specchio delle tensioni intime di esseri umani attratti, come falene verso la luce, da una cupio dissolvi ancestrale e irresistibile.

Lo spazio (il paesaggio) e il tempo (la durata delle inquadrature, dilatata all’estremo) sono da sempre gli strumenti prediletti da Bartas, che però non ha alcuna intenzione di ingannare lo spettatore con la maniera di se stesso gratuita e sterile, piuttosto lo cattura attraverso immagini potenti ed evocative, per trascinarlo in un percorso di profondità nelle anime tormentate dei personaggi, fino a raggiungere quello che si va pian piano configurando come il centro del suo film: la paura.

Ecco allora che dopo tanti silenzi, il film lascia erompere sullo schermo il dialogo, in una serie di sequenze dagli esiti sorprendenti. Sono soprattutto le due donne – ma a loro si aggiungerà anche un altro personaggio femminile di passaggio, forse una vecchia amante dell’uomo – a rivolgersi al padre-compagno- per delle vere e proprie confessioni “liturgiche” dedicate al timore di divenire adulti e perdere così per sempre la sensibilità della prima infanzia (la ragazza) o smarrire l’entusiasmo della giovinezza (la donna). Il dubbio, l’ansia di vivere appieno la vita, prima che il rimpianto subentri a fiaccarne ogni entusiasmo, sono dunque gli argomenti d’elezione di questi flussi di coscienza e aprono il film ad una riflessione più ampia sul presente e il futuro della Lituania, un paese giovane, non ancora alla deriva, forse sul punto di esserlo.

Una discussione dai toni quasi grotteschi tra la e la rozza vicina, caparbia e fiera nel difendere la superiorità della musica folk su quella di Beethoven, chiarifica poi quanto per la borghesia lituana contemporanea sia divenuto in realtà impossibile ritrovare quel rapporto intimo con la wilderness cui il film sembra anelare a lungo.

Guarda anche  HAPPY END [SubITA]

Potrebbe sembrare una nota a margine, ma non è affatto da trascurare l’elemento autobiografico che caratterizza Peace to Us in Our Dreams: oltre a mettersi in scena in prima persona, Bartas assegna infatti a sua figlia il ruolo dell’adolescente, mentre la madre ed ex compagna del regista, recentemente scomparsa, appare in un breve filmato di repertorio. Segno che Peace to Us in Our Dreams è, oltre ad una ponderosa riflessione sulla morte, anche un toccante strumento di rielaborazione del lutto, che investe lo spettatore con le sue domande e la sua grazia dolente.

Recensione: quinlan.it

 

 

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By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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