MY HEART CAN’T BEAT UNLESS YOU TELL IT TO [SubITA]

Titolo originale: My Heart Can’t Beat Unless You Tell It To
Paese di produzione: USA
Anno: 2020
Durata: 901 min.
Genere: Drammatico, Horror
Regia: Jonathan Cuartas

Dwight e Jessie faticano per mantenere in vita il loro malato fratello minore. Per riuscire nel loro scopo, devono dargli da mangiare sangue umano.

La palma di film più deprimente dell’anno spetta a questo esordio sbucato dal nulla e con un paio di facce note nel ridottissimo cast. Il titolo di una lunghezza oscena arriva da questa canzone di Helene Smith, che comunque vi invito ad ascoltare: è bellissima e, prima di vedere il film, non sapevo neppure della sua esistenza.
Potrei avere, come spesso mi capita, torto, ma mi pare che si stia facendo strada un filone relativamente recente all’interno della variegata galassia che per comodità chiamiamo cinema horror: si tratta di quello che utilizza il genere come una dell’incubo, fin troppo reale, rappresentato dal prendersi cura di qualcuno che amiamo quando è gravemente malato. L’anno scorso sono usciti Relic e The Dark and the Wicked, e il film di cui parliamo oggi si muove nello stesso spazio.
Non sto dicendo che l’horror come della malattia sia invenzione dell’altro ieri, altrimenti dovrei chiudere il blog e darmi al giardinaggio, ma credo sia evidente che, nell’affrontare lo spinoso discorso della malattia, si stia cercando sempre di più di procedere oltre la mera deformità fisica come meccanismo di repulsione, e di cambiare il punto di vista: in altre parole il mostro è la malattia in quanto tale, non la persona che ne soffre e che si trasforma in un essere ripugnante.

Dwight (Patrick Fugit, anche produttore) e Jessie (Ingrid Sophie Schram) sono fratello e sorella e, insieme, si occupano del loro fratellino più piccolo, Thomas (Owen Campbell), vittima di una misteriosa malattia che lo obbliga a nutrirsi del sangue altrui e a non poter mai esporsi alla luce del sole.
Per far sopravvivere Thomas, Dwight e Jessie sono ovviamente costretti a procurargli sangue umano fresco, e di conseguenza a uccidere. La loro esistenza è ridotta ai minimi termini, concentrata nella sua interezza su Thomas, il loro orizzonte limitato alle quattro mura dalle finestre oscurate della loro in mezzo alla campagna. Se Dwight comincia a scricchiolare e a cedere, soprattutto per i problemi di natura etica che una situazione del genere comporta, Jessie è incrollabile e ha come unico obiettivo la preservazione del nucleo familiare, a ogni costo e senza curarsi punto della scia di cadaveri che si stanno lasciando alle spalle.
Il povero Thomas, in tutto questo, desidererebbe soltanto vivere un’adolescenza normale, avere degli amici, uscire all’aperto. Tutte cose che non potrà mai avere.

Cuartas, regista e autore della sceneggiatura, è molto parco di informazioni sui tre personaggi: non sappiamo che fine abbiano fatto i genitori, non abbiamo idea di come Thomas abbia contratto la malattia, se sia nato così o se, come vuole la tradizione, sia stato contagiato da un altro vampiro. La stessa parola vampiro non viene mai utilizzata nel corso del film, che comunque rientra a pieno nel vasto filone del cinema dedicato ai succhiasangue, occupandone la nicchia più minimalista e triste, quella che vede il vampirismo non tanto come una classica maledizione o come una forma di dipendenza alla Abel Ferrara, ma come una vera e propria malattia incurabile, con parecchie caratteristiche terminali. Se non fosse che Thomas è tecnicamente immortale. Si tratta quindi di un male incurabile protratto verso l’eternità.

Lo stile del film è austero (il formato è in 4:3), freddo e distante. My Heart Can’t Beat è un film deprivato da qualunque senso di gioia o di leggerezza, in cui anche gli occasionali sorrisi si pagano cari e vengono immediatamente ricacciati in gola a forza. Non ha né la carica di terrore soverchiante di The Dark and the Wicked né la dolcezza poetica di Relic, per cui in certi momenti potrebbe risultare parecchio indigesto, per la sua lentezza, per le sue ambientazioni chiuse e claustrofobiche, per la mancanza di trasporto emotivo nel mettere in scena tre personaggi tragici, ma con i quali non è semplice provare empatia: Jessie è troppo rigida, spesso crudele, completamente trasfigurata nella di capofamiglia da non lasciare posto a niente altro; Dwight ha un carattere passivo e tendente all’inazione, mentre Thomas è una sorta di guscio vuoto che ogni tanto se ne esce con la tipica petulanza di un adolescente.
Nessuno dei tre cerca la nostra simpatia, non è neppure richiesta la nostra identificazione. In un film così ridotto ai minimi termini, a un’essenzialità che sconfina nello squallore, gli occasionali sprazzi di umanità cui Cuartas ci concede di assistere, pesano come macigni; per non parlare di quanto la violenza esplode all’improvviso, e anche lì, non c’è estetizzazione che tenga, non si edulcora nulla; persino quando si sceglie di lasciare di dettagli più raccapriccianti fuori campo, lo si fa per aumentare la suggestione, non per smorzarne l’effetto.

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Per questo, io vi capisco se un film così vi dovesse respingere: come dicevo in apertura, è deprimente come parecchie produzioni indie americane che vanno a scavare nel disagio e nell’emarginazione sociale, ma la componente di genere contribuisce a rendere il tutto più brutale. Non è un horror estremo neanche per sbaglio, e tuttavia è un film che rivendica una forte identità d’autore e che del mio e del vostro intrattenimento se ne infischia senza farsi troppe remore.
Ha molto chiaro cosa vuole raccontare e come lo vuole raccontare: l’idea di fondo è quella di una famiglia che si dissolve gradualmente di fronte alla malattia, di come le pulsioni verso una libertà vista come un miraggio irraggiungibile (la cartolina di Miami Beach contemplata in più occasioni da Dwight) si scontrino con la responsabilità di un altro individuo. Una responsabilità che non hai chiesto e ti è piovuta addosso.
Se Jessie accetta la responsabilità come un fardello, in maniera quasi ascetica e senza metterne mai in discussione i presupposti, a fregare Dwight, come si evince anche dal titolo, è l’amore che ancora prova nei confronti dei suoi fratelli. Controlled by Your Love è dopotutto il titolo della canzone cui il film si ispira.

Ma c’è anche un altro elemento da non trascurare, ovvero l’assoluta solitudine in cui questa famiglia, chiaramente ai limiti della sussistenza (lei fa la cameriera in una tavola calda, lui vende i vestiti delle loro vittime a un banco dei pegni), viene abbandonata. E qui, temo, si esce di parecchio dalla e si entra in un territorio fatto di realismo spicciolo, di mancanza di alternative e di possibilità. Dwight, Jessie e Thomas non hanno scelta, nessuno di loro la ha, perché non esiste alcuna rete di protezione intorno a loro, alcun sistema di supporto: un fratello e una sorella di neanche 40 anni che devono occuparsi di un ragazzino malato.
E infatti, la sequenza più impressionante del film ha poco a che spartire col vampirismo, ma vede Jessie estrarre un dente d’oro dalla bocca di una delle loro vittime chiedendosi quanto potrà valere.
Le conclusioni cui il film arriva sono dure e niente affatto consolatorie. Forse c’è una flebile lucina di speranza verso la fine, ma arriva a un prezzo tale che pure chiamarla speranza mi pare eccessivo.
Se volete passare una serata all’insegna dell’angoscia più profonda e della depressione più nera, My Heart Can’t Beat Unless You Tell it to, è decisamente il film che fa per voi.

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By Anam

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