METEORLAR [SubITA] 🇳🇱 🇹🇷

Titolo originale: Meteorlar
Paese di produzione: Olanda, Turchia
Anno: 2017
Durata: 84 min.
Genere: Drammatico, Fantascienza, Visionario
Regia: Gürcan Keltek

Meteors è il promettente esordio al lungometraggio del turco Gürcan Keltek, nella sezione concorso Cineasti del Presente alla 70esima edizione del Locarno Festival; uno stratificato nel temporale della Storia e della guerra, gremito di ossessioni cosmiche ed esistenzialiste.

Per aspera ad astra
Arrivano di notte e tutti escono per strada. Accendono torce e commemorano quelli che hanno camminato su queste strade prima di loro. Nelle ore a venire il villaggio sarà isolato: c’è un’eclisse e cominciano a cadere le meteore. [sinossi]

Dopo il mediometraggio documentario Colony del 2015, il regista turco Gürcan Keltek, classe ’73, arriva a Locarno irrompendo sugli schermi con Meteors (Meteorlar è il titolo originale), la cui potenza in mezzo al magma del Festival è paragonabile a quella delle meteore stesse con le quali il film si conclude. Nel poema satirico del ‘600 di Samuel Butler Hudibras, l’autore britannico dice che è una meteora a denunciare l’inizio della caduta degli scettri e delle corone; e in un certo senso Keltek parte da lì, da un senso di connessione cosmica tra l’uomo (rappresentato da una donna protagonista e dai suoi pensieri, dai suoi sguardi), il mondo circostante in un senso prettamente istituzionale e politico, e un universo naturalistico che comprende, in una scala quasi gerarchica di valori e significato, tanto gli animali quanto le montagne, fino alle meteore riecheggiate sin dal titolo e ai 4 elementi della natura – i quali, seguendo le regole non scritte del cinema di Andrej Tarkovskij, riempiono ogni spazio, sia esso reale o allegorico, aperto o chiuso, pulito o sporco, intatto o in rovina. Alternando riprese effettuate appositamente con filmati di repertorio, Meteors si sposta, nei suoi sei capitoli, tra svariati poli, partendo da una montagna, ipoteticamente minacciosa come il corpo roccioso divino di Monte (2016) di Amir Naderi, per poi spostarsi sulla ritualità turca, sulla guerra, sul contemporaneo, alzandosi sempre di più fino a discutere l’interiorità umana e la sua piccolezza nei confronti del Cosmo. Spesso decostruendo l’immagine sino a rendere astratta la natura stessa, più o meno come faceva il Bill Viola di Chott-El-Djerid (A Portrait in light and heat) nel 1979, Keltek compie un lavoro di osmosi che si sposta su binari ben precisi ma spesso imprevedibili, in un crescendo tematico dalla portata non indifferente che non dà assolutamente l’idea di una qualsivoglia pretenziosità.

La prima sezione del film si apre con una specie di eclisse, con la luna che da piena diventa un taglio, per poi fare spazio a uno sguardo sempre più circolare e selettivo nei confronti delle capre montane che scorrazzano su e giù per le montagne rocciose della Turchia. Questo sguardo crea come delle forme, che sembrano a loro volta creare dei pianeti la cui superficie è composta da pezzi di terra, e la narrazione in voce fuori campo pare muoversi nella direzione di un naturalismo tutt’altro che antropocentrico, almeno finché non rivela il proprio vero scopo: la caccia. Subito, le capre da soggetto diventano oggetto, da “carnefici” dell’immagine, capaci di esserne protagonisti quasi sconfiggendo la maestosità dell’ambiente circostante, ne diventano vittime, unendo la macchina da presa con il fucile. Quest’apertura sembra più che altro essere una dichiarazione d’intenti, il modo in cui Keltek mette in chiaro che l’operazione del film è basata tanto sulla costruzione di un umore da un punto di vista stilistico e figurativo, a partire dalla costante fotografia in bianco e nero e dalla colonna sonora post-rock che include gli scozzesi Mogwai, quanto sulla definizione cinematografica delle vittime. Le capre ben presto diventano uomini, che si spostano per movimenti rituali e tradizionali in feste popolari atte a ricordare qualcosa che è svanito, per ritrovare un’unione attraverso il rumore. Subentra una percezione scientifica di un assoluto la cui essenza distingue la stregua degli spettatori da quella dei personaggi: per chi ha letto il titolo del film o ne ha visto il prologo, il fuoco d’artificio rimanda a un’idea semantica vicina all’unione tra la potenza dell’arte del montaggio cinematografico e le teorie di Carl Sagan, mentre per le figure che scorrono sullo schermo, le comparse e i paesani, il botto del fuoco d’artificio funge quasi come promemoria bellico, come ricordo del fantasma della della guerra che è sempre dietro ogni angolo a causa del costante conflitto tra curdi e turchi. L’energia stessa della festività cittadina si tramuta presto in uno scenario caotico, più riempito dalla paura che dal divertimento, in un gioco al massacro del visivo in cui e buio mettono in risalto il potere della morte di svuotare la poesia, mentre l’Io svuota l’amore e lo sguardo dell’amore, principale punto focale di un lato più romantico e complesso interno al film. I frammenti di Meteors che invece si riferiscono allo sguardo del popolo puntano al delinearne le particolarità, assumendone i punti di vista o mostrando gli orrori di cui questi personaggi, siano essi bambini o anziani, sono stati testimoni attraverso foto e video dagli schermi digitali dei loro televisori e dei loro cellulari.

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Le rovine stesse sembrano cominciare una loro ridefinizione o resurrezione, prendendo parte a una vita “nuova” che si muove attraverso suoni astratti, a volte appartenenti all’ideale ‘drone’ del sound design che permea tutto il film, e a volte sospesi in un silenzio che si sposa alla perfezione con i rumori del temporale che ha colpito Locarno proprio durante l’inquieta e densa proiezione. Il contrasto tra astratto e concreto passa dall’inquietante arrivo dei cittadini alla festività agli audio perduti di Ebru Ojen, principale interprete del film, per poi giungere nel reame della disintegrazione, tra rivolte che si deformano attraverso glitch e pixel e uno scambiarsi perpetuo tra la staticità e il movimento, tra la vita e la morte ipotetica del mondo. Dalle giostre di luna park urlanti dalla vitalità estrema si passa a un’energia diversa, una minaccia dal cielo, catturata ancora una volta secondo regole quasi di astrazione, con la coda dell’occhio: un dettaglio che si fa sempre di più grande nello schermo, illuminandolo, come una pioggia di meteore nel Sud Est. Si sentono voci che dicono «Sonic Booms are louder than gunshots»; ed è difficile capire se, quando gli abitanti dicono che le meteore hanno “fermato” la guerra, intendono che l’evento li ha distratti dal terrore o se li ha spaventati fino a scoprire un altro tipo di terrore, quello del sentirsi piccoli di fronte alla magnificenza dell’universo, quello di divenire vittime di un nemico incontrollabile. Si ritorna all’animale girando attorno al Monte Nemrut, nel Sud-Est della Turchia, con falsi Messia che guardano i morti in silenzio e vengono evocati nei monologhi della protagonista, o forse del regista, che ricerca un lascito di un senso di puro intuito, un ritorno al primordiale, e dunque distoglie l’attenzione dal cielo e torna sulla terra, alle capre che scontrano le loro capocce in testate autodistruttive mentre più in basso due serpenti lottano. Il conflitto si sposta dalla disintegrazione all’autodistruzione, compiendo un discorso definito e poetico. Certamente si può dire che è un film d’esordio che ancora deve definire uno stile, e che in questa dimensione Meteors non può che dimostrare i propri limiti d’intento, ma di certo a Gürcan Keltek non manca il talento, né la capacità di osare con le immagini, con i suoni e con le astrazioni. Perché il suo è già un cinema sfuggente, inarrestabile, infuocato, seducente. Come un meteorite.

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By Anam

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