HIDE AND SEEK (SubITA)

Titolo originale: Sum-bakk-og-jil
Paese di produzione: Corea del Sud
Anno: 2013
Durata: 110 minuti
Genere: Drammatico, Thriller, Psicologico
Regia: Jung Huh

Sinossi:
In una città di provincia immersa in un inverno perenne, una giovane donna conduce un’esistenza ritirata e silenziosa. Il suo passato è segnato da un evento traumatico che ha spezzato ogni possibilità di relazione autentica con il mondo esterno. Quando nella sua vita rientra una figura maschile legata a quel passato irrisolto, la fragile routine quotidiana si incrina. Vecchie colpe, segreti sepolti e un dolore mai elaborato riemergono lentamente, trascinando i personaggi verso una resa dei conti emotiva tanto inevitabile quanto distruttiva.

Recensione:
Sum-bakk-og-jil è uno di quei film che sembrano respirare freddo. Non solo perché l’inverno domina ogni inquadratura, ma perché Jung Huh costruisce un cinema della sottrazione, della rigidità emotiva, dell’anestesia sentimentale. Qui tutto è congelato: i paesaggi, i volti, le parole. Il titolo internazionale, Steel Cold Winter, non è una metafora poetica ma una dichiarazione programmatica: questo è un mondo in cui il trauma ha indurito l’anima fino a renderla quasi metallica.

Il film si muove su un confine delicato tra dramma psicologico e thriller esistenziale. Non c’è suspense nel senso classico, ma una tensione continua, silenziosa, che cresce scena dopo scena. Jung Huh lavora per accumulo emotivo, non per svolte narrative. Ogni gesto è misurato, ogni dialogo ridotto all’osso. I silenzi non sono pause, ma veri e propri blocchi di materia emotiva che schiacciano i personaggi.

La protagonista è costruita come una figura quasi spettrale, una presenza che attraversa gli spazi senza abitarli davvero. Il suo dolore non viene mai esibito in modo melodrammatico: è trattenuto, rimosso, interiorizzato fino a diventare parte della sua postura, del suo modo di camminare, di guardare. Jung Huh sembra interessato non tanto al trauma in sé, quanto alle sue conseguenze a lungo termine: la paralisi emotiva, l’incapacità di fidarsi, la trasformazione dell’identità in una zona di sopravvivenza.

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Quando il passato ritorna, non lo fa sotto forma di rivelazione spettacolare. Non c’è un “colpo di scena” liberatorio. Il film rifiuta qualsiasi catarsi facile. Il ritorno è lento, quasi impercettibile, come una crepa che si allarga nel ghiaccio. La relazione tra i personaggi è carica di ambiguità morale: nessuno è completamente innocente, nessuno è un mostro dichiarato. La colpa è diffusa, sedimentata, stratificata nel tempo.

Visivamente, Sum-bakk-og-jil è dominato da una palette fredda, desaturata, che trasforma il paesaggio in una proiezione dello stato interiore dei personaggi. Gli spazi urbani sono anonimi, spogli, alienanti. Le case non sono rifugi ma luoghi di reclusione emotiva. La regia evita qualsiasi virtuosismo: la macchina da presa osserva, aspetta, insiste. È un cinema che non consola e non accompagna lo spettatore, ma lo costringe a restare dentro il disagio.

C’è qualcosa di profondamente coreano in questo modo di raccontare il dolore: una disciplina emotiva che non esplode mai, una sofferenza che si consuma in silenzio. Ma allo stesso tempo il film parla una lingua universale. La difficoltà di elaborare un trauma, il senso di colpa che corrode dall’interno, la paura di riaprire ferite mai guarite sono esperienze che attraversano culture e contesti.

Sotto la superficie realistica, Sum-bakk-og-jil ha anche una dimensione quasi simbolica. L’inverno sembra eterno, come se il tempo stesso fosse rimasto bloccato nel momento del trauma. Non c’è vera evoluzione, solo un lento avvicinamento a una verità che fa paura perché non promette redenzione. È un cinema che suggerisce, in modo crudele ma onesto, che non tutti i dolori possono essere risolti, e che alcune ferite definiscono chi siamo più di qualsiasi scelta consapevole.

Il film chiede molto allo spettatore: pazienza, attenzione, disponibilità a stare nel non detto. Ma in cambio offre un’esperienza intensa, coerente, profondamente disturbante nella sua calma. Sum-bakk-og-jil non urla mai, non manipola, non cerca empatia forzata. Si limita a mostrare come il freddo possa diventare uno stato permanente dell’anima.

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Un’opera che resta addosso proprio per ciò che non mostra, per ciò che trattiene. Un cinema del gelo emotivo che, paradossalmente, brucia lentamente.

By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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