HARD TO BE A GOD (SubITA)

Titolo originale: Trudno byt bogom
Nazionalità: Russia
Anno: 2003
Genere: Drammatico, Fantascienza, Spirituale, Visionario
Durata: 177 min.
Regia: Aleksej Jur’evič German (Aleksey German)

Alcuni scienziati sono inviati sul pianeta Arkanar per aiutare la locale, che si trova nella fase medievale della propria storia, a trovare il modo giusto per progredire. Il compito è difficile: non possono intromettersi con la violenza e in nessun caso possono uccidere. Lo scienziato Rumata cerca di salvare dalla gogna gli intellettuali locali e non può evitare di scendere in campo. Come se la questione fosse: cosa faresti al posto di Dio?

Non ci sono spazi, nell’opera postuma di Aleksei German: c’è uno spazio – lo Spazio – e questo è continuamente riempito, soffocato, convulso da una rappresentazione opulenta. È uno più enfio che gonfio, e non può che uno spazio statico, che scardina da sé qualsiasi scintilla di dinamicità in vece di una riflessione che non ha della contemplazione quanto, piuttosto, di un atto reazionario che è, viceversa, auto-contemplazione, ineluttabilmente risolta in un’autoreferenzialità che è specchio di un’epoca. Quale epoca? Non c’è epoca, perché non c’è corso né decorso storico, quindi sarebbe meglio parlare di società, di comunità, di insieme o, meglio ancora, di mucchio, di agglomerato, di agglutinato. Qualcosa che riempia lo spazio, insomma. Appare dunque evidente, date queste premesse, che Hard to be a God, tratto da un testo dei Strugarski, autori del romanzo sul Tarkovskij ha basato Stalker (URSS, 1979, 163′), sia fondamentalmente una pellicola di disseminazioni: nel suo terreno, e persone si disperdono e, così facendo, il proprio senso, lo profondono nell’ambiente fino a farne una sorta di cappa a flusso laminare, coercitiva e definitiva, che è, per l’appunto, Arkanar. Specchio di questa landa medievaleggiante è l’interrogativo che ossessiona Don Rumata, interrogativo che, per il suo continuamente riproposto e, soprattutto, per la sua stessa natura, è eminentemente statico, autoreferenziale, ossessivo e ossessionante l’interrogante e non l’interrogato: «Cosa faresti se fossi un Dio?». È una domanda vuota, inessenziale, forse addirittura esiziale, ma è la domanda ed è l’unica domanda che possa emergere e stanziarsi ad Arkanar. Perché questo? Una domanda, qualsiasi essa sia, risponde sempre a un tentativo di ricerca; anche nel caso non trovi risposta o rimedi una risposta negativa, essa permette quantomeno di uscire da ciò che si conosce e di immaginare un qualcosa che sia altro, su cui ci si interroga. Insomma, prevede la spazializzazione, la domanda. Ecco perché, ad Arkanar, avrà sempre una natura autoreferenziale, statica. Perché non c’è spazializzazione, solo spazio – chiuso e stantio. In questo spazio, Don Rumata cerca l’arte, gli intellettuali, ma, non essendoci che uno spazio determinato, il vettore artistico non può slanciarsi e spazializzare dentro o all’infuori di esso: non può esserci. L’ implica il vuoto, nel senso che l’arte è sempre qualcosa che buca, che inventa nuovi spazi, crea nuovi rapporti. Certo, il fondamento rimane reale, ma solo come fondamento la può sussistere nell’arte, poiché, banalmente, se l’arte fosse la realtà non ci sarebbe arte; anche il gabinetto di Duchamp, in fondo, necessita di uno spazio particolare, che sia circoscritto rispetto alle zone di realtà nelle quali non figurerebbe come arte. Ecco, Hard to be a God è sostanzialmente questo: un film d’arte sull’arte, che non poteva che essere postumo. Non un’opera cinica, sia chiaro, anzi un’opera piena di speranza e di senso artistico, autentica, ma di quell’autenticità che per questioni d’individuazione l’individuo ottiene soltanto in punto di morte. E forse è soprattutto per questo che ammalia, il testamento di German, perché si fonda su se stesso, si autoimpone come arte, determina la propria ontologia, che è (l’)estetica: all’infuori di esso, non c’è e non esiste niente.

Guarda anche  ORGAN [SubITA]

Recensione: emergeredelpossibile.blogspot.it

By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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