GUNDA

Titolo originale: Gunda
Paese di produzione: Norvegia, USA
Anno: 2020
Durata: 93 min.
Genere: Documentario
Regia: Viktor Kosakovskiy

Victor Kossakovsky firma un lavoro ad altezza di scrofa, la Gunda del titolo. Sono lei, i suoi cuccioli e altri animali della fattoria i protagonisti di un film espressionista e impressionista a un tempo, riflessione sui preconcetti dell’umanità. In TFFdoc a Torino dopo la presentazione a febbraio alla Berlinale.

La vecchia fattoria
Gunda è una scrofa che ha partorito da poco la sua cucciolata. Vive in una fattoria norvegese, insieme a un paio di mucche e a un gallo con una zampa sola. [sinossi]

Victor Kossakovsky è un regista a suo modo difficile da incasellare, che fa della crasi insostituibile tra estetica e ragionamento la base portante del suo lavoro. Le immagini che lavora, da sempre, sono assolute, spingono in maniera insistente verso l’idea di unico, di irripetibile, quasi che l’hic et nunc fosse la conditio sine qua non del pensiero documentario. È difficile uscire dalla visione dei film di questo cineasta oramai quasi sessantenne senza provare un leggero senso di vertigine, uno spaesamento, l’impressione di essere sconnessi con il una volta rientrati nel reale quotidiano, nell’avventura umana di ciascuno. In questo senso basterebbe la prima sequenza di Gunda, presentato a febbraio nella Berlinale di Carlo Chatrian nella neonata sezione Encounters e ora approdato al Torino Film Festival nella sua veste online – e su questo dettaglio, tutt’altro che secondario, si tornerà più avanti –, per rendersi conto dell’operazione, per niente superficiale o solo percettiva, che contiene. Gunda è una scrofa, e la si vede spaparanzata nella sua cuccia, con solo la testa all’esterno per godere di un bel raggio di sole. Mentre la camera lentamente si avvicina, si iniziano a notare altri movimenti: sono i suoi cuccioli che si arrampicano sul corpo della mamma per uscire all’aria aperta. Un piano sequenza esemplare, che non ha bisogno di orpelli o di sovrastrutture per raggiungere il proprio obiettivo, che verrà poi portato avanti con coerenza da Kossakovsky per l’intera durata del film: gli animali dell’aia visti da una prospettiva diversa rispetto a quella che abitualmente li inquadra nella società, dove acquistano un valore puramente utilitaristico entrando a far parte – in vario modo – del ciclo alimentare dell’uomo.

Non c’è niente oltre questo in Gunda, ed è allo stesso tempo il suo principale limite e la sua miglior dote. La qualità sta nel fatto di tornare a un’idea basica del cinema, desaturandolo fino a giungere al nero, al grigio e al bianco, le tonalità espressive scelte in fase di fotografia (lavoro portato a termine dallo stesso regista insieme a Egil Håskjold Larsen). In un’epoca in cui si ricorre all’effetto speciale perfino quando si pretende di agire negli interessi precipui del “reale” una riscoperta del potere misterico dell’immagine in quanto tale, solo perché a mutare è l’altezza della camera o la prospettiva dello sguardo deve essere accolta con attenzione e gaudio. Lo stupore dello spettatore non è dovuto a chissà quale sortilegio dell’immaginario, ma alla rivelazione dell’ovvio, di ciò che è proprio accanto a sé e ha progressivamente dimenticato. D’altro canto la semplicità assoluta cui tende Kossakovsky (in questo senso Gunda assomiglia solo in parte ad altre opere del regista, si pensi a ¡Vivan las Antipodas! o alla vita di San Pietroburgo narrata in Russia from my Window) rende il film un monolito, magari inscalfibile ma allo stesso tempo mai particolarmente teso alla costruzione di un senso dialettico. Non è possibile mettere in discussione quello che accade sullo schermo, perché equivarrebbe a provare a smentire l’impressione, a scartavetrare un acquarello: è ovvio, per chiunque abbia anche solo vaghissimi rudimenti di etologia, o più prosaicamente abbia avuto modo di convivere con un animale domestico, che anche le altre bestie diverse dall’uomo – in particolar modo i mammiferi – provino sentimenti, costruiscano affetti e si prendano cura della prole. Anche qui non si sta facendo altro che sottolineare l’ovvio, e in tal senso Gunda acquista un valore quasi educativo, come se fosse pensato per un pubblico prescolare o in ogni caso non alfebatizzato (la produzione esecutiva di Joaquin Phoenix, che ha fatto della cultura vegana una delle sue battaglie, sembra suggerire ben più di un passo in questa direzione).

Ci si intenerisce “naturalmente” di fronte a Gunda, si ammira lo splendore delle immagini così come quello di questi maestosi animali da fattoria – il gallo senza una zampa diventerà oggetto di culto, c’è da scommetterci –, ma forse non si scava quanto sarebbe stato auspicabile nel rapporto a un tempo osmotico e di separazione (paradosso concreto, questo) tra uomo e animale, tra velleità e necessità dell’uno e rispecchiamento nell’altro. Per arrivare a ciò sarebbe stato necessario problematizzare la questione, uscendo però dal potere dell’impressionismo che invece sembra guidare Kossakovsky. Certo, il non può che colpire un sistema che fa della carne macellata uno dei suoi veicoli industriali, ma se si lascia che questo sedimenti solo sul singolo, senza di nuovo mettere nel problema l’intera filiera del sistema del Capitale, con tutto ciò che comporta – anche a livello lavorativo, di sviluppo del proletariato e via discorrendo – quel senso di colpa rimarrà puramente borghese, non potrà evolversi, non potrà di nuovo creare dialettica.

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In ultima istanza, una piccola riflessione a latere sulla visione del film all’interno del Torino Film Festival. Gunda, proprio per il peso che attribuisce all’aspetto visivo e fotografico, perde irrimediabilmente di spessore una volta che viene ridotto allo schermo di un pc o ben che vada di un televisore, per quanto grande esso sia. Tra il film visto alla Berlinale sugli schermi del CinemaXX e quello che è apparso sui personal computer di spettatori e addetti ai lavori, c’è un oceano di differenza. Una distanza impossibile da colmare, e che dimostra come solo chi non ha cuore la cultura cinematografica e ne ignora il potenziale tecnico può pensare di sostituire il grande schermo con il piccolo, la visione collettiva in presenza con l’apparizione di un titolo su una piattaforma. Ed è una scrofa, che torna solitaria alla sua vita, a ribadirlo.

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