
Titolo originale: Rengeteg – Mindenhol látlak
Paese di produzione: Ungheria
Anno: 2021
Durata: 98 minuti
Genere: Drammatico, Sperimentale
Regia: Benedek Fliegauf
Sinossi
Una serie di incontri, frammenti e confessioni — sette episodi autonomi ma invisibilmente connessi — in cui personaggi sconosciuti rivelano fessure della loro umanità più fragile, più crudele, più imprevedibile. Non c’è trama nel senso tradizionale: c’è un’umanità sospesa, colta nei suoi momenti di deriva emotiva.
Recensione
Ci sono film che non cercano di piacere, non cercano di intrattenere, non cercano di raccontare una storia: cercano un varco. Rengeteg – Mindenhol látlak è uno di questi. Fliegauf costruisce un organismo fatto di volti e di silenzi, di conversazioni che sembrano banali ma che portano sotto pelle una pressione psicologica quasi insostenibile, come se ogni parola fosse detta troppo tardi o troppo presto, sempre nel momento sbagliato. Il film è un corridoio pieno di porte semiaperte: entri, osservi, e non puoi far nulla per cambiare il destino di chi ti parla.
È un cinema che vive di frizioni impercettibili. I personaggi non sono archetipi né pedine narrative, ma creature che entrano in scena già ferite, già incomplete, già pronte a rivelare un brandello della loro intimità quasi contro la loro stessa volontà. Fliegauf li osserva dall’interno, senza mai ricorrere alla distanza estetica o morale: ogni dialogo diventa una sorta di autopsia dell’anima, condotta con una precisione chirurgica e allo stesso tempo profondamente empatica. Il suo sguardo non giudica, non consola, non denuncia: registra. E nella registrazione sorge un’umanità devastante.
La costruzione episodica ha la forza di una raccolta di novelle esistenziali: ogni segmento è un microcosmo che potrebbe vivere anche fuori dal film, in forma di racconto breve o confessione registrata. Eppure tutti insieme compongono un mosaico inquietante: la sensazione che le nostre vite, per quanto separate, continuino a sfiorarsi, a riflettersi, a contagiarsi. Nessuno è davvero isolato: siamo tutti parte di una vibrazione sotterranea, di un’eco che rimbalza da un volto all’altro, da una paura all’altra. Perché quello che vediamo non è solo un gruppo di storie: è un sistema nervoso condiviso.
Lo stile è ridotto all’osso, ma mai povero: Fliegauf usa la macchina da presa come un diaframma a contatto diretto con il respiro dei personaggi. I primi piani, lunghi, tesi, non cercano di essere estetici: cercano di essere sinceri. Ogni tremolio della voce, ogni pausa, ogni micro-esitazione diventa un terremoto emotivo. Questo cinema è una lente d’ingrandimento puntata sull’umanità — e quel che si vede non è sempre bello, non è sempre logico, non è sempre sopportabile. Ma è vero.
La bellezza del film sta nel suo rifiuto di dare risposte. Ogni episodio lascia un’inquietudine che non trovi dove mettere. Il film non offre catarsi, non offre redenzione, non offre linee guida. Ti mette davanti all’ambiguità del sociale, del relazionale, dell’affettivo, del quotidiano. E lo fa con una calma che sfiora la crudeltà. Il risultato è una sorta di trance emotiva: guardi persone parlare, e ad un tratto ti accorgi che stai guardando te stesso, le tue omissioni, le tue menzogne involontarie, le tue goffaggini emotive, i tuoi fallimenti di comunicazione.
Rengeteg – Mindenhol látlak continua il percorso di Fliegauf nel territorio dell’essenziale e del profondamente umano. È un cinema che non grida ma lascia lividi; che non dichiara ma insinua; che non consola ma chiarifica. Esce dal film chi può, non chi vuole: perché ci si accorge, lentamente, che quello che Fliegauf mette in scena non è la vita degli altri, ma quel reticolo invisibile di timori, resistenze, micro-violenze e tenerezze involontarie che attraversa chiunque provi a relazionarsi con il mondo.
È un film che ti guarda mentre lo guardi.
