FAYA DAYI [SubITA]

Titolo originale: Faya Dayi
Paese di produzione: Etiopia, Stati Uniti, Qatar
Anno: 2021
Durata: 120 min.
Genere: Drammatico, Documentario, Spirituale
Regia: Jessica Beshir

Vincitore del 52° Visions du Réel di Nyon, Faya Dayi rappresenta il primo lungometraggio per la filmmaker Jessica Beshir, il ritratto di un villaggio etiope dove la vita degli abitanti è scandita dalla coltivazione del khat, una pianta che rappresenta una droga tradizionale nella cultura islamica sufi, che si assume masticando le foglie, mentre i giovani della comunità sono tentati dalle lusinghe dei trafficanti di migranti.

Khat amaro
Un viaggio spirituale negli altopiani di Harar, in Etiopia, dove la popolazione vive con i rituali del khat, una foglia masticata da secoli per meditazioni religiose di musulmani sufi, oggi il raccolto più redditizio del paese. [sinossi]

Un abitante del villaggio etiope racconta del buonissimo caffè che produceva la sua famiglia, ma si trattava di una coltivazione che richiedeva molta irrigazione, e ormai ha ripiegato, come tutti i contadini locali, sul khat. La storia di Faya Dayi, il primo lungometraggio della filmmaker Jessica Beshir, presentato in anteprima al Sundance e vincitore del 52° Visions du Réel di Nyon, è la storia di una monocultura, quella del khat, le cui foglie, masticate, rilasciano nella saliva sostanze con effetto stimolante simile a quello delle anfetamine. Sarà per il riscaldamento globale e la scarsità d’acqua che rende difficili altre coltivazioni, sarà per un redditizio business della droga da esportare, che la vita degli abitanti del villaggio in Etiopia, protagonista del film, è scandita al ritmo della coltivazione di questa pianta, nelle fasi di raccolta, lavorazione, imballaggio e trasporto nei vicini mercati. Il titolo stesso del film riprende quello della canzone intonata dai braccianti durante la mietitura. Gli abitanti ne sono anche consumatori, molti sono visti mentre masticano quelle foglie durante le loro attività quotidiane. La simbiosi ormai in atto tra la popolazione e la pianta ricorda il rapporto con la coca delle comunità andine.

Già nelle prime scene la regista ci mostra la raccolta, in cui sono impegnati vari ragazzi, presentandoli, che poi seguirà raccontando le loro storie. Sono storie di emigrazione, passata o futura, chi progetta di imbarcarsi dall’Egitto e attraversare clandestinamente il Mediterraneo in quel fenomeno migratorio che conosciamo bene, chi si è fatto convincere dal trafficante di esseri umani di cui si fida perché è musulmano, uno sceicco, chi lo ha già fatto ed è ritornato ritrovando la propria fidanzata, chi ha perso completamente i contatti con la madre, partita quando era bambino. Il racconto del villaggio passa anche per accenni a guerre e torture, alla condizione inferiore dell’etnia oromo, al meticciato culturale e religioso nei diversi veli islamici femminili che si vedono. In generale emerge un quadro di desolazione, anche nella di vivere in un territorio molto fertile ma di essere tagliati fuori dalla relativa ricchezza. La dipendenza dal khat, evidente in tutti i personaggi che ne consumano le foglie, in continuazione mentre fanno altro, potrebbe essere un modo di fuga da questa condizione. Jessica Beshir comunque non esprime un giudizio a carattere moralistico-proibizionista, e si guarda bene da qualsiasi lettura sociologica. Se uno dei ragazzi si lamenta di stare perdendo il padre a causa del suo consumo di khat, il film esprime anche quel portato sacro, mitologico della coltivazione del khat, riportata nelle sacre scritture, di cui vengono letti brani a opera di un vecchio santone, con l’incenso fumante, in cui si parla del ruolo salvifico del khat, nell’ambito di una cosmogonia ancestrale nella concezione dell’islam sufista.

Le lande desolate, le pianure, i bambini che giocano e corrono in ambienti umidi, laghi o tra le pozzanghere. Con una gamma di grigi, della fotografia in bianco e nero, Jessica Beshir cattura il rilievo, l’esistenza materica di quei luoghi e di quei paesaggi, nei muri bianchi e in quelli ruvidi di argilla, nei vicoletti stretti e assolati, nelle tendine trasparenti, nel fumo che si sparge nell’aria dei narghilè o dell’incenso il cui aroma rimane anche quando le sue esalazioni non sono più visibili. Un chiaroscuro che evita saggiamente la patina da cartolina del colore. C’è solo una scena a colori, quella della combustione di una brace ardente, rossa, che appare come una visione onirica, psicotropica. E la regista enuncia anche la dimensione prettamente cinematografica del suo lavoro, nell’esibire e srotolare la pellicola di una bobina, di un proiettore di una vecchia sala. La visione cinematografica è assimilata a quella allucinogena: «Quando la gente è strafatta, comincia a vedersi dei film nella mente», dice uno dei ragazzi. La costruzione dell’immagine è particolarmente elaborata, vedi per esempio i momenti ricorrenti dei due ragazzi sdraiati che parlano, ripresi con la stessa inquadratura dall’alto. Ed è funzionale a raccontare un territorio con le sue storie che aleggiano, che sono come scritte in quello stesso paesaggio, di personaggi spesso senza nome, senza identità, a volte anche senza volto, lasciato in fuori campo, con le solo loro voci. Ancora la distanza dal linguaggio tradizionale del documentario, che utilizzerebbe delle interviste, è tanta. Jessica Beshir sceglie la strada di un paradossale documentario antropologico che viaggia a livello metafisico, poetico, meditativo.

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