EVEN COWGIRLS GET THE BLUES [SubITA] 🇺🇸

Titolo originale: Even Cowgirls Get the Blues
Nazionalità: USA
Anno: 1993
Genere: Commedia, Drammatico
Durata: 95 min.
Regia: Gus Van Sant

 

Il film vede protagonista Sissy Hankshaw, cowgirl dai pollici mutanti che attraversa l’America facendo, inevitabilmente, l’autostop. Il suo percorso è segnato da esperienze di ogni genere, sessuali e allucinogene. Il film soffre di una tormentata: stroncato dalla critica alla sua prima proiezione al Festival di Venezia, ha subito tagli e rielaborazioni prima di essere distribuito nelle sale, senza però raggiungere il successo del romanzo di Tim Robbins cui si ispirava.

Autostop: la più grande libertà di movimento / Greater Freedom of Movement

Even Cowgirls Get the Blues è una delle opere più controverse di Van Sant, probabilmente la meno amata e compresa.
Presentato a Venezia nel 1993 in una versione di un’ora e cinquanta minuti, unanimemente considerata disastrosa e sconcertante dalla critica dell’epoca, uscì l’anno successivo accorciato di venticinque minuti con un montaggio leggermente differente volto soprattutto a condensare l’assurda trama attorno allo Spannung e relativo scioglimento nel autarchicamente diretto dalle mandriane lesbiche, liberandosi di parecchie sequenze contemplative ed assorte (la stessa tipologia che troveremo abbondantemente utilizzata in Last Days (vedi recensione a cura di AG *)e Gerry (vedi recensione a cura di LO *), ma che ovviamente costituisce da sempre una delle marche autoriali più efficaci e riconoscibili del cinema del americano). Questa oscillazione, variazione in corso d’opera d’una opera mai davvero riducibile né riconducibile a forma intelligibile, riconosce scopertamente l’irriducibilità cinematografica dell’omonimo romanzo cult del lisergico Tom Robbins , del quale il film costituisce più che altro un omaggio – reso esplicito dalla scelta di utilizzare proprio la sua voce come voce (appunto) narrante ed extradiegetica.
Ho sempre odiato le considerazioni attorno agli esiti delle riduzioni cinematografiche di opere letterarie, per chi scrive la questione non si pone nemmeno: cinematografico e letterario sono due linguaggi distinti, dunque differenti ed intraducibili, ogni loro contatto porta ad approssimazioni ed alla creazione d’un opera della quale il testo (o il film) di partenza altro non può essere che uno fra la moltitudine di elementi che lo compongono. Due linguaggi che operano con strumenti differenti: parole da un lato, immagini (in movimento) dall’altro. Dunque considero il film di Van Sant un omaggio ad un eccentrico scrittore che dagli anni settanta ha saputo stupire con uno stile assolutamente unico fatto di visionarietà e semplicità entro trame complicate e paradossali, popolate da un’umanità dimenticata e sorprendente, riconciliata con il pianeta, in armonia con esso.

Sissy è proprio tutto questo quando il film ce la fa incontrare, un essere meravigliosamente a-socializzato, dedito alla pratica della libertà, libero di muoversi per gli Stati Uniti con la sola forza dei suoi pollici, portentosi strumenti che le permettono d’essere la più grande autostoppista di ogni epoca, una Dea del viaggio in grado di intercettare un passaggio anche nelle condizioni più improbabili, Dea il cui nome è leggenda, ed i cui paiono letteralmente miracolosi e soprannaturali. Memorabile la sequenza in cui Uma Thurman muovendo i pollici a mo’ di addetto alla pista di decollo e atterraggio d’un aeroporto direziona a suo piacimento un bimotore svolazzante per gli orizzonti infiniti d’un paesaggio americano. “La più grande libertà di movimento” (Greater Freedom of Movement), è questo quello che da bambina lesse sul dizionario sotto la voce “autostop” e che per sempre le rimase stampato nella mente, una specie di credo laico, un mantra che entra in testa allo spettatore tanto quanto alla giovane ed eccentrica creatura protagonista, un mantra inscritto in uno degli incipit filmici più accattivanti che possa capitare di vedere (al e nel cinema).

La storia raccontata, ovvero il tempo del racconto, prende le mosse (come già accennato) dall’infanzia della piccola Sissy , una giovinezza fatta soprattutto di premonizioni sussurrate su quel che sarà. E’ una cartomante, una meravigliosa Roseanne nei panni di Madame Zoe , la prima a lasciar intendere che quei lunghi pollici potrebbero trovare il proprio senso – oltre che nell’autostop – anche nell’atto sessuale con altre donne (il senso nel sesso, letteralmente), ma il discorso è solo vagamente accennato perché la premurosa madre (interpretata da Grace Zabriskie, ovvero la madre di Laura Palmer nella serie Twin Peaks), intuendo l’antifona, si prodigherà per depistarlo su più quieti – e vaghi – orizzonti.
Quando, un freddo pomeriggio invernale, Sissy compirà per la prima volta il gesto d’estrarre il pollice dal margine d’una strada mentre un auto sopraggiunge il suo destino sarà per sempre segnato.

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Even Cowgirls Get the Blues è l’elemento più eccentrico della filmografia vansantiana, trasgredisce alcuni assunti poetici assolutamente costanti da Mala Noche (vedi recensione a cura di RR *) a Milk (vedi recensione a cura di RR * e LO *), dal 1989 al 2009. Il più macroscopico è la scelta del genere da osservare. Uma Thurman è stata l’unica attrice ad avere avuto la possibilità d’interpretare il carattere del protagonista in un film di Gus Van Sant, mentre Sissy e le sue vicende hanno saputo addirittura narrare un quasi totalmente escluso dal cinema mainstream, quello dell’omosessualità al femminile, il lesbismo. Un romanzo di formazione che come in tutto il cinema di Van Sant ha come fine la dell’amore, un cinema che racconta di esseri umani bisognosi di affetto, vogliosi di aprirsi agli altri, alla ricerca d’una intensità sentimentale che sentono necessaria per raggiungere una condizione di pace armonica col tutto. Even Cowgirls Get the Blues ha una regia che cerca il più alto grado di adesione alle atmosfere hippy del romanzo, concretizzandolo in continue soluzioni stilistiche assai interessanti, che chiamerei psichedeliche (William S. Burroughs, oltre a comparire nel film in questione ed in Drugstore Cowboy (vedi recensione a cura di RR *), è da considerarsi fra i riferimenti culturali più importanti di Gus Van Sant, che della contro-cultura beat degli anni sessanta e settanta ha saputo trarre molte caratteristiche fondanti della propria poetica) e che conferiscono al film le fattezze di una farsa, una festa di colori e situazioni bizzarre, da guardare con occhi pronti allo stupore e mente aperta alle meravigliose forme che l’amore può assumere. Fra queste Van Sant, Tom Robbins e la Contessa convengono di annoverare la di accoppiamento delle gru americane.

Recensione: rapportoconfidenziale.org

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By Anam

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