EAMI [SubITA]

Titolo originale: EAMI
Paese di produzione: Paraguay, USA, Germania, Paesi Bassi, Argentina, Francia, Messico
Anno: 2022
Durata: 83 min.
Genere: Drammatico, Spirituale
Regia: Paz Encina

Non catalogabile come documentario o finzione, il film della regista paraguaiana racconta il dramma degli ayoreo, decimati da deforestazione e interessi coloniali. Con un punto di vista intensamente spirituale: la bambina di 5 anni unica superstite della propria comunità

l film è un’esperienza. Questa espressione, di recente piuttosto frequentata dalla critica cinematografica, va applicandosi sempre più spesso a opere filmiche di forte impatto immersivo. Che non raccontano, per intenderci, una storia lineare di cui contentarsi, ma che, bensì, trascinano lo spettatore in una dimensione altra. Chissà cosa ne pensa Paz Encina, apprezzata regista di Eami, vincitrice del Festival Internazionale di Rotterdam 2022 (Tiger Award, il massimo riconoscimento). L’abbiamo intervistata con l’idea che “esperienza”, per il suo film, non sia un’abusata etichetta critica. Anzi: oltre a non lasciarla cadere, converrebbe raddoppiarne la pregnanza. Perché, girato negli occhi di una bambina di 5 anni ma soprattutto nello spirito di una comunità indigena, Eami è insieme naturale e soprannaturale. È individuale, e corale. Soprattutto, difficile da raccontare: ecco perché ci serviva conversare con la regista in Paraguay.

Il presupposto drammatico e documentario, comunque, è solare: la comunità degli Ayoreo, nella zona del Gran Chaco, è uno dei casi di resistenza indigena alla brutale, ma spesso silenziosa, invasione di affaristi e colonizzatori; presunta civiltà. Nella lingua locale, los coñones: gli insensibili. Ai cieli acquosi, alle foreste ancora rigogliose, fanno da sfregio le magioni, i ranch, gli spari. Ma niente documentari di osservazione, o finzioni di denuncia. La protagonista Eami è l’unica superstite della sua comunità, e la sua voce si unisce a quelle disperse – del passato, dei morti, della natura – in un meraviglioso canto degli oppressi. Da vivere come esperienza: di ascolto, visione, spirito. Guai a dire il contrario.

Eami significa “foresta” in Ayoreo. Significa anche “mondo”. Gli indigeni Ayoreo-Totobiegosode non fanno distinzione: gli alberi, gli animali e le piante che li circondano da secoli sono tutto ciò che conoscono. Ora vivono in un’area che sta subendo la deforestazione più veloce del pianeta.

La regista paraguaiana Paz Encina si è recato a Chaco per questo film. Si è immersa nella mitologia Ayoreo-Totobiegosode e ha ascoltato storie strazianti su come le persone vengono cacciate dalla loro terra. Sulla base delle conoscenze acquisite, ha realizzato un film onirico, magico-realistico su una bambina di nome Eami. Dopo che il suo è stato distrutto e la sua comunità si è disintegrata, Eami vaga per la foresta pluviale. Lei è il dio-uccello – spiega nella poetica voce fuori campo, nella sua stessa lingua – alla ricerca di chiunque possa essere rimasto. Ogni tanto Encina riproduce frammenti di interviste, mentre studia il volto immobile di Eami. Eami dovrà vivere fuori dalla foresta pluviale, proprio come il coñone: (letteralmente: “l’insensibile”). Encina trasforma la sua ultima peregrinazione in un’esperienza per tutti i sensi, con immagini incantevoli e un potente mix sonoro. Un uccello urla. Il vento fa frusciare le foglie. Qualcosa ringhia in lontananza. Poi: macchine. Panico. EAMI è un’accusa; eppure, forse anche di più, un tentativo di registrare qualcosa che andrà perso. “Ricorda tutto”, dice la lucertola/vecchio che accompagna Eami nel suo viaggio. “Una volta che ce ne saremo andati, non potremo più tornare.”

L’intervista: Paz Encina racconta Eami
UNA LINGUA INDIGENA
Quando un regista inizia a lavorare su un film, dal punto di vista artistico ha bisogno di organizzare una forma di narrazione. Nel caso di Eami, film di sensazione ed evocazione più che di storia narrata, sembra invece che la questione sia più radicale: di traduzione, e non di narrazione. Vale a dire, di intervenire alla radice del cinematografico per assumere a pieno la forma espressiva della comunità indigena. Di fatto, qual è stata l’operazione più urgente che hai dovuto affrontare per la creazione di Eami?

In qualche modo, quando ho iniziato a lavorare sul film Eami, sapevo di aver bisogno di “lasciarmi prendere” da una cultura che non era la mia. Mi ci è voluto del tempo. È stato soprattutto un processo emozionale e spirituale. Avevo bisogno di lasciarmi guidare, percorrere un cammino che non conoscevo, come quando si cammina nell’oscurità con una specie di vertigine. Eppure, per certi versi, sapevo anche che nel corso di questo cammino mi trovavo su di un terreno sicuro. Mi sono dovuta disfare dei codici del tempo che avevo sempre cullato. Il tempo in Eami è multiplo e non ha a che fare con quello di tipo lineare a cui siamo abituati.

A questo, ad ogni modo, ho cercato di dare un’impronta, una forma di contenimento del racconto. Avrei infatti potuto divagare in qualsiasi direzione. Fare un film senza né capo né coda. E così è stato, quasi fino alla fine. Durante le riprese, ho dovuto cambiare la sceneggiatura un migliaio di volte, filmare cose a cui nemmeno avrei pensato, inventare messe in scena, inventare attori, sequenze. Risultato: sono arrivata al montaggio con del materiale filmato di pura intuizione.

Qui è iniziato un altro cammino oscuro, ma allo stesso tempo chiaro, perché ero accompagnata dalla montatrice Jordana Berg. Transitare per questo cammino è stato, però, meno vertiginoso. Abbiamo montato insieme, per intuizione, non assecondando alcuna storia. In questo “montaggio per intuito”, abbiamo finito per trovare un racconto. Oggi, retrospettivamente, mi sembra allucinante, ma nell’atto di farlo ti assicuro che è stato tutto molto difficile.

UNA PROTAGONISTA, NESSUNA E CENTOMILA
Alla fine, nonostante la propria forma anticlassica, una storia arriva in Eami. Una storia di diaspora, si potrebbe dire. Ma c’è anche qualcosa che definirei “la diaspora del protagonista”, perché Eami non è solo la bambina di 5 anni, bensì un concetto più complesso della cultura indigena. Investe l’universo come forza vitale. Come hai lavorato dal punto di vista drammatico sotto questo aspetto, cioè, avere una protagonista che non è solo un personaggio, ma che diventa una pluralità di voci e di forze?

Eami è la condizione umana. È l’uomo che viene annichilito dall’uomo. Eami sono gli indigeni ayoreo, ma sono anche io, e forse tu. Siamo tutti quelli che hanno affrontato una perdita; quelli che si spostano da un luogo all’altro; quelli che vengono espulsi dal paradiso. Ma siamo anche “los coñones”: siamo questa molteplicità di persone da cui prendiamo forma. Eami è una bambina nel presente raccontata da una voce che è lei stessa dal passato.

Suppongo che la tua formazione musicale ti abbia aiutato ad ascoltare questa voce.

Lavorare a questa protagonista, che è una “voce temporale” (per provare a dare un nome a tutto questo), è in effetti qualcosa che devo molto alla musica. A Villa Lobos (compositore e polistrumentista brasiliano, vissuto nella prima metà del ‘900, n.d.R.) e al suo modo di tenere il tempo. Alla musica che mi ha insegnato che nel momento stesso in cui ascolto una nota di due tempi, ne ascolto anche due di un tempo. Alla musica, in cui i tempi convivono in forma naturale.

INVADERS
Così come è complicato trovare una definizione su chi sia protagonista di Eami, non è scontato indicarne gli antagonisti: quelli che in lingua zamuco sono definiti, coñones, “insensibili”. La presenza dell’uomo bianco non è sempre frontale. Piuttosto, è evocata, o la si percepisce per effetto della sua azione sulla comunità e sul territorio. La mia domanda è: quali sono i segni di colonizzazione che hai rilevato sul luogo? È corretto dire che, a livello filmico, li hai tradotti come “invasione”?

Prima di percepire cosa sia un’invasione, mi è apparso chiaro cosa sia un territorio. Il territorio è la terra, ma è anche i nostri suoni, i nostri odori, i nostri sapori, i nostri desideri. Tutto ciò che ci fa perdere questo, è invasivo, e tutto ciò che è invasivo è tale perché deve esserci stata un’invasione. La prima cosa che ho filmato di Eami è stata un’intervista a quello che nella vita reale sarebbe il nonno di Eami, il leader della comunità, Porái Picanerái. Era un mattino presto, albeggiava; il suono della montagna era una fortuna ineguagliabile. Ma presto, cominciarono a sentirsi macchine, latrati di cani, suoni di cavalli, parole in spagnolo, suoni che non appartengono al mondo ayoreo. E così, ho capito la colonizzazione: questo è ciò che mi ha reso chiaro il concetto di “invasione”.

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OLTRE IL DOCUMENTARIO
Ti sento parlare di intervista e non posso fare a meno di chiederti una cosa. Come ti senti nel relazionarti a categorie critiche quali documentario e fiction, per un film come Eami che appare molto libero nella forma e personale nel dispositivo?
Eami è un film. Non è un documentario, finzione, non-finzione… Farei fatica ad incasellarlo in una definizione precisa, ma ciò che sento forte è che è un film. Al di là di tutto, è un film.

Anche se non è strettamente un documentario, immagino ci sia un aspetto della produzione Eami che appartenga al formato: quello dell’immersione nel contesto e della conoscenza della comunità. Ti sei posta la domanda su come fare un film che non fosse, a sua volta, una sorta di “atto di colonizzazione”, ma piuttosto un canto d’amore o di empatia? Cosa hai cercato di evitare e cosa hai cercato di fare?

Mi sono proposta questo, da un punto di vista molto personale: di non lasciarmi trascinare in un’alfabetizzazione che non mi appartenesse, né di filmare sequenze che non volessi filmare. Il racconto doveva funzionare secondo la mia struttura di pensiero. Ho cercato soprattutto di filmare mantenendomi sempre in uno stato di grazia, vale a dire, senza mai perdere l’emozione, senza perdere l’amore verso questo popolo, verso ciò che faccio, verso il mio lavoro. Rispettarmi, in primo luogo, così come sono, così come osservo, così come ascolto; con la consapevolezza che se tutto falliva, falliva e basta; e che se morivo, bene, morivo e basta…

ASCOLTARE IL FILM
Ecco, l’ascolto. Un film è una creazione audio-visiva, ma la lingua ci dice che l’espressione corrente è “vedere un film”. Eami, però, si ascolta anche. La prima scena è a camera fissa e sa tramutare in alleati quelli che spesso sono nemici dei registi che filmano all’aperto: suoni e rumori nel proprio flusso naturale. Cos’hai cercato di ottenere espressivamente nel tuo tentativo di ascoltare anziché escludere i suoni?

Anche se sono nata nella capitale, la città dove sono cresciuta era molto rurale. Ho sempre vissuto vicino agli alberi, alla natura, al fiume. Questa è la mia casa, in realtà. Per me l’infanzia, che alla fine è ciò che mi determina per come sono, si è svolta in qualche modo all’interno del mondo naturale. Ciò non toglie che a livello sonoro abbia comunque dovuto lavorare con suoni che non appartenevano esattamente alla mia esperienza quotidiana, come ascoltare un giaguaro o un armadillo.

Ero comunque in grado di immaginare come potesse essere la percezione di questi suoni attorno a me. Ho cominciato da questo esercizio di ascolto che oltre ad essere una sfida, è stato per me un momento incredibile, perché ho sentito che attraverso l’astrazione potevo riuscire a vivere il momento, purché l’astrazione fosse sonora. In poche parole, più che essere concreta, doveva avere la capacità di essere sensoriale. Tutto ciò che non si poteva vedere, si doveva almeno sentire. E così, io, che lavoro sempre per sottrazione, e finisco per togliere e togliere cose, questa volta ho lavorato per addizione. Ho cumulato i suoni; cercavo di sentirli nello spazio. Nel territorio filmico.

AVVENTURE AL MONTAGGIO
Di recente, ho parlato più volte con registi che considerano il piano sequenza come uno stratagemma tecnico per creare immersione e senso del tempo. Nel tuo caso, invece, hai spesso scelto long take e inquadratura fissa per comunicare la presenza e la durata. Come hai lavorato, tra sceneggiatura e montaggio, alla gestione del tempo, collaborando con la nota montatrice Jordana Berg? E perché hai scelto lei?

Jordana già la seguivo sui social network, e avevo il sogno di lavorare con chi aveva lavorato con Coutinho (Edouardo Coutinho, tra i documentaristi più importanti della storia del cinema brasiliano, n.d.R.). Essere arrivata lei potrebbe sembrare una casualità, ma è piuttosto un segno del destino. Mi sono presentata a lei con lunghe sequenze che non erano state filmate per il taglio del montaggio, e peraltro con un film molto diverso da quello che avevo scritto.

Sentire in due la durata di una sequenza è stato qualcosa di meraviglioso, è stato come iniziare una relazione d’amore e cercare di vedere come respira l’altro per respirare in maniera simile e riuscire a camminare insieme. Ognuna delle due è stata attenta al respiro dell’altra e al respiro della sequenza. Per me, è stata un’esperienza a tratti spirituale. È stato incredibile andare a montare Eami tutti i giorni a casa sua.

Ma mi raccontavi di essere “arrivata” a Jordana. Qual era il piano iniziale?

All’inizio, ero andata a fare il montaggio in Argentina, in cerca di coproduzione, ma non abbiamo incontrato montatrici che ci piacessero. Poi, appena mi hanno detto di cercare da qualche altra parte, e che non c’era bisogno che fosse una coproduzione, ho scritto a Jordana su Messenger, e a partire da qui, abbiamo cominciato a parlare. Quello che ho vissuto con lei è stato incredibile. Rispetto molto Coutinho, è uno dei più grandi registi sudamericani, ma credo che la sua opera risenta molto della presenza di Jordana. Per questo volevo lavorare con lei: anche io volevo sentire la forza di questa presenza.

OCCHI CHIUSI
Anche per chi lo guarda, Eami è un’esperienza spirituale, se non magica. Penso, tra le altre, a scene in cui i membri della comunità indigena sono ripresi frontalmente con gli occhi chiusi. Quali sono le ragioni di questa scelta? Secondo te, guardare gli indigeni con gli occhi chiusi può diventare un approccio alla loro spiritualità, o è una forma di chiusura in un’intimità che finisce per alienare lo spettatore?

Quei bambini, quando chiudevano gli occhi, entravano come in una specie di trance. Entravano in un altro piano e potevano restarci per tutto il tempo che volevano. Erano in un altro livello, in un’altra dimensione. La stessa cosa è accaduta nei momenti di guarigione. Vivevano in parallelo un’altra realtà che non era quella in cui stavamo vivendo noi. Ebbene, era proprio ciò di cui avevo bisogno per il film: avvicinarmi il più possibile a quei momenti di trance, in cui si è come in un che avviene in un altro tempo e in un altro spazio.

ORME DEL PASSATO
Tra gli elementi visivi ricorrenti di Eami, ci sono anche le orme, spesso inquadrate. Orme diverse. Che senso hanno per te?

Le tracce sono qualcosa di concreto, sono i segni di chi è stato lì. Ci sono impronte di scarpe usate da noi bianchi, ma ci sono anche quelle di animali. Impronte su scale temporali: quelle degli animali, soppiantate da quelle delle scarpe di noi bianchi.

Seppur così rispettoso della comunità e capace di trasmetterne l’anima, Eami è anche un film che si lega organicamente tanto a tuoi precedenti titoli e tuoi interessi personali, quanto al Paraguay in generale. Come descriveresti queste connessioni, personali e nazionali?

Eami continua ad essere un film che parla di ciò di cui ho sempre parlato. Perdita, esilio, diaspora… compreso l’amore l’uno per l’altro, come in Hamaca, dove questi anziani si amano e l’uno sostiene la vita dell’altro, o come in Ejercicios de Memoria, nell’amore di una famiglia verso un padre che non c’è più. Parla anche dal punto di vista dell’infanzia, cosa che ho già fatto in alcuni cortometraggi come Viento Sur o Río Paraguay e, ovviamente, anche in Ejercicios. In qualche modo, si può dire che questo è il mio territorio. È ciò di cui so parlare.

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ESPERIENZE PER CAMBIARE LO SGUARDO
Come regista di Eami, alla fine, ti può bastare tramutare il film in un’esperienza profonda per chi lo veda, oppure hai bisogno anche di un distacco più lucido e concettuale, che lo faccia percepire nella sua dimensione di denuncia politica e sociale?

Per me l’esperienza stessa è un gesto politico. Se si vive l’esperienza, si capisce tutto.

Si parla talora di cinema postcoloniale, come già diffusamente in letteratura. Ti sembra che il discorso possa valere per Eami? O avresti da ridire sul post-, per recriminare la forte attualità del colonialismo e dei suoi meccanismi di prevaricazione?

È così: si tratta di un dramma attuale e presente, e per di più, di un dramma che perdura nel tempo.

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By Anam

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