CLOSE YOUR EYES (SubITA)

Titolo originale: Cerrar los ojos
Paese di produzione: Spagna, Argentina
Anno: 2023
Durata: 169 min.
Genere: Drammatico
Regia:

A trentuno anni di distanza da El sol del membrillo torna alla regia con Cerrar los ojos, struggente eppur teorica riflessione sul cinema come memoria, sul tempo perduto, sull’immagine e la voce come testimonianze di ciò che fu. Un’opera maestosa, che avrebbe meritato di concorrere per la Palma d’Oro invece di essere relegata nel fuori concorso di Cannes Première.

La mirada del adiós

Il celebre attore Julio Arenas è scomparso nel 1990 durante le riprese di un film. Il corpo non è mai stato ritrovato e la polizia ha concluso che abbia avuto un incidente e sia caduto in mare. Molti anni più tardi il mistero torna a galla grazie a un programma televisivo che mostra le ultime scene girate dall’attore, diretto in quell’occasione dal suo miglior amico, Miguel Garay, che dopo la scomparsa di Arenas ha abbandonato il cinema ritirandosi in un villaggio in riva al mare. [sinossi]

 

Sun is sinking in the west
The cattle go down to the stream
The redwing settles in the nest
It’s time for a cowboy to dream

Purple light in the canyon
That is where I long to be
With my three good companions
Just my rifle pony and me

Gonna hang my sombrero
On the limb of a tree
Coming home sweet my darling
Just my rifle pony and me

Whippoorwill in the willow
Sings a sweet melody
Riding to Amarillo
Just my rifle pony and me
Dean Martin, My Rifle, My Pony and Me

 

“I miracoli al cinema non ci sono più da quando è morto Dreyer”. Difficile non cedere alle lacrime quando Mario Pardo, nella parte dell’archivista e proiezionista Max, si rivolge in questo modo a Miguel Garay (Manolo Solo) che fu regista molti decenni or sono e ora, dopo non essere riuscito mai a terminare la sua opera seconda, vive in una roulotte a due passi dal mare, in un tranquillo villaggio di pescatori lontano dalle ansie, dalle ambizioni, e dai desideri della capitale Madrid. Forse ha ragione Max, e davvero i miracoli non esistono più da quando Inger/Brigitte Federspiel si è rialzata dal letto di morte, ma Cerrar los ojos fa di tutto per convincere il proprio pubblico del contrario. A suo modo è già un “miracolo” l’esistenza stessa del film, il primo lungometraggio diretto da Víctor Erice negli ultimi trentuno anni, e il suo quarto in assoluto in cinquant’anni di carriera: l’emozione, fin dall’attesa in sala a Cannes prima della proiezione – il film è stato presentato nella sezione Première, e non in concorso: su questo punto specifico si tornerà in chiusura d’articolo –, è stata palpabile, come se si fosse di fronte a un fantasma del passato, qualcuno per il quale si è provato un profondo affetto e ora riappare. Parla d’altro canto di memoria, fantasmi, e passato anche Erice, e quindi ovviamente anche di cinema, il fantasma per eccellenza, il luogo immateriale in cui forme del passato resistono al tempo, si perpetuano all’infinito, riemergono dalle sabbie mobili in cui la li ha fatti sprofondare. Parla di memoria, cinema, e tempo, Erice, ma lo fa da una prospettiva che ricaccia indietro o per meglio dire schiva qualsiasi suggestione metalinguistica, e qualsiasi deriva postmoderna. Per quanto parli al cinema e di cinema, con tanto di incipit in cui ci si trova di fronte a un film nel film senza che questo sia immediatamente esplicitato allo spettatore (escamotage che qui a Cannes si è visto in un altro film che avrebbe meritato di concorrere per la Palma d’Oro ed è stato invece inopinatamente relegato in Première, vale a dire Eureka di Lisandro Alonso), Cerrar los ojos si aggrappa all’immagine non per discettare della confusione tra ciò che è reale e ciò che è narrato – confusione nella quale potrebbe essere caduto uno dei personaggi, quel Julio Arenas scomparso nel nulla nel 1990 – ma per ribadire la necessità di considerare l’oggetto cinema un luogo della storia, e dunque un contenitore di “passato”, il medium ideale per riconnettere l’umano a sé stesso, e al proprio sentimento.

Non è casuale che sia un film a far brillare l’ordigno che dà il la all’intero intrico narrativo. Come si è appena scritto Julio Arenas, attore di grande successo e tombeur de femmes di prim’ordine, nel 1990 è svanito nel nulla mentre era impegnato a recitare sul set del secondo film da regista di Miguel Garay, il suo migliore amico. Dopo ricerche infruttuose la polizia, avendo ritrovato la macchina di Arenas abbandonata, e delle scarpe a ridosso di una scogliera, ha derubricato il caso a incidente – con il sospetto del suicidio – ipotizzando che l’ sia caduto in mare da una grande altezza, disperdendosi nei flutti. Nel 2012, quando nessuno ha più memoria né dell’accaduto né di Arenas, un programma televisivo che si occupa di casi irrisolti si interessa alla storia, e contatta Garay per chiedergli sia un’intervista in studio sia i diritti de “La mirada del adiós”, il film in lavorazione quando avvenne il fattaccio. Garay, che dopo quell’esperienza ha abbandonato il cinema e ora si arrabatta traducendo testi dedicati alla settima arte, accetta soprattutto per garantirsi i soldi accordati dalla produzione del programma. Solo un film, per quanto incompiuto, può avere il potere di attraversare il tempo e “riaprire” un caso, e dunque una ferita, un trauma irrisolto, qualcosa che soggiaceva sotto il derma della realtà e ora può di nuovo pulsare, sanguinare, vivere. Erice articola Cerrar los ojos in tre movimenti, tutti e tre in grado di ruotare in modo tra loro diverso sul senso della memoria, e dell’identità. Il primo parte dalle immagini – false, ma non per questo dimenticabili – del film nel film, un’avventura ambientata alla fine degli anni Quaranta che sembra quasi l’incrocio tra  immortale di Orson Welles e un fumetto di Hugo Pratt, e arriva all’immagine altrettanto registrata (e dunque indimenticabile) del programma televisivo cui prende parte Manuel. Il secondo segmento si occupa dell’indagine vera e propria da parte dell’uomo, che approfitta dei pochi giorni a Madrid per incontrare di nuovo alcune persone del passato – di nuovo, i fantasmi – e chiedere loro cosa ricordino di Julio, e del momento della sua scomparsa. Il terzo, infine, vede Manuel ricevere una soffiata: Julio potrebbe trovarsi in una casa di cura a ridosso della spiaggia, del tutto dimentico di chi sia stato in passato, tenuto lì per gentilezza dalle suore che gestiscono la struttura e che lo chiamano Gardel, visto che fischietta dei tanghi.

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Il falso esplicitato, la detection che cerca il vero, e il “miracolo”, l’atto di fede in cui si deve credere ciecamente affinché possa tramutarsi in realtà. Eccoli i tre momenti/movimenti attraverso cui si articola lo straziante e dolcissimo dramma di Erice. E se i miracoli li ha fatti solo il cinema, è solo grazie al cinema che si può sperare di far tornare la memoria a Julio, permettendo a un fantasma di rifarsi carne, e ri-vivere. Ma non vive forse anche chi non ha più memoria, come suggerisce a Miguel il medico che per primo verificò lo stato di salute di Gardel quando arrivò, senza documenti né altro, alla casa di cura? Con grande cura Erice non si permette facili soluzioni, e mantiene nel dubbio anche la motivazione dell’amnesia decennale di Julio, forse perfino indotta dal desiderio di abbandonare per sempre un mondo di cui non riusciva più a sentirsi parte. D’altro canto anche il set su cui stava lavorando con Miguel parlava di un “re triste” (appare evidente, nella fittizia magione in cui vive l’anziano Mr. Levy e che si chiama Triste-le-Roy, la citazione a Jorge Luis Borges), e di una memoria del passato rintracciabile solo nell’immagine, quella della fotografia di una ragazzina. Così l’immagine di scena, la fotografia inesistente di un passato mai vissuto può diventare l’unico appiglio alla realtà di un che ha smarrito la propria memoria. E così un film mai girato – e anche qui Erice gioca con i riferimenti, in questo caso autobiografici visto che “La mirada del adiós” somiglia davvero molto a quel El embrujo de Shanghai che Erice abbandonò, e che trovò conclusione nel 2002 grazie a Fernando Trueba – può scatenare la scintilla e riportare alla vita “storicizzata” Julio/Gardel. Solo il cinema può agire in tal senso, come testimonia il finale ma ancor prima molti dettagli del film: sull’autobus che lo sta riportando a casa Miguel sogna i fotogrammi al secondo che compongono L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat; e quando strimpella alla chitarra una canzone per gli amici con cui condivide lo spazio sulla spiaggia – da cui verranno tutti sfrattati, a quanto pare – Miguel canticchia My Rifle, My Pony and Me, il classico di Dean Martin che si può ammirare in Un dollaro d’onore di Howard Hawks. È davvero necessario allora credere ancora nel miracolo del cinema, e dello sguardo, quello sguardo che può essere netto, reciso, a occhi chiusi, velato, frontale o laterale, ma che è ciò che ancora connette gli esseri umani, ricordando loro cosa sono stati, e dunque cosa sono. Si sono dovuti attendere trentuno anni per il ritorno alla regia di un lungometraggio di Víctor Erice (anche se Cerrar los ojos ricuce il tempo con una cabala bizzarra: 1973 Lo spirito dell’alveare, 1983 El sur, 1992 El sol del membrillo, 2002 El embrujo de Shanghai poi girato da Trueba, 2012 il ritrovamento di Julio Arenas grazia a “La mirada del adiós”, 2023 Cerrar los ojos), ma ne è valsa la pena.

Sarebbe stato giusto, per non dire doveroso, che Cannes avesse accolto in concorso il film, ed è triste che quanto affermato da Thierry Frémaux quando gli sono state chieste delucidazioni in merito (“il film è arrivato troppo tardi, a selezione praticamente terminata”) sia stato duramente smentito da Erice, che afferma di aver inviato una versione completa nel montaggio eccezion fatta per la color correction nella seconda metà di marzo. La verità probabilmente è che opere come Cerrar los ojosEurekaKillers of the Flower Moon di Martin Scorsese, o Kubi di Takeshi Kitano, le si vuole lasciare lontano dalle competizioni, lontano dall’epicentro dello sguardo degli accreditati. Perché hanno la forza di ricordare ancora cos’è il cinema, quale sia la sua forza, e soprattutto il suo senso.

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By Anam

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