CELESTIAL WIVES OF MEADOW MARI [SubENG] 🇷🇺

Titolo originale: Nebesnye zheny lugovykh mari
Paese di produzione: Russia
Anno: 2012
Durata: 106 min.
Genere: Drammatico, Grottesco
Regia: Aleksey Fedorchenko

Elogio all’amore e in particolar modo alla figura femminile, Celestial Wives of Meadow Mari conferma le eccellenti doti registiche di Aleksei Fedorchenko, e testimonia l’assoluta coerenza di una poetica che ha il coraggio – leonino, se si ha qualche nozione pur minima della struttura sociale russa – di sfuggire alle grinfie di per cercare la propria essenza nelle aree rurali, lontano dal trambusto del potere.

Ventitré piccoli film sulle donne del Volga
Ventitré brevissimi film narrano storie di donne del popolo Mari. I film, ognuno con un tono diverso (allegro, triste, divertente o spaventoso) costruiscono un percorso sulla filosofia, sulle e sul presente di un popolo che, per le sue origini finniche, si è sempre differenziato dal resto della popolazione russa… [sinossi]

L’amore non lo canto
è un canto di per sé
più lo s’invoca meno ce n’è
PGR, Montesole

Tra i registi più rappresentativi del cinema russo venuto alla luce nel corso dell’ultimo decennio, non v’è dubbio alcuno che Aleksei Fedorchenko si segnali come figura a se stante, lontana dalla prassi produttiva dell’ex Unione Sovietica: la artistica di Fedorchenko mostra infatti tratti peculiari che la contraddistinguono nettamente da quella di altri autori apprezzati e noti a livello internazionale quali Aleksei German jr., Sergej Loznitsa, Kirill Serebrennikov, Ivan Vyrypayev e Andrei Zvyagintsev. Il suo è un cinema che non solo si muove slegato dalla prammatica produttiva russa, ma ne rinnega in parte anche il ceppo antropologico: nel precedente, splendido, Silent Souls il regista concentrava la sua attenzione sulla perduta popolazione di origine ugro-finnica dei Merya (conosciuti anche come Merja), e in questo Celestial Wives of Meadow Mari – presentato in concorso alla settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, ennesima dimostrazione della stima e dell’attenzione di Marco Müller verso Fedorchenko nello specifico e l’intera produzione russa in senso più generale – sposta lo sguardo di poco. Il film mette infatti in scena usi, costumi e ancestrali dei Mari, altra popolazione del ceppo ugro-finnico inserita a pieno titolo nel contesto russo: si presume che i Merya discendessero proprio dai Mari, rappresentandone una costola che nel corso dei secoli aveva deciso di spostare i propri insediamenti più a nord. Mentre i Merya occuparono l’area geografica che comprende le di Rostov Velikij, Kostroma, Jaroslavl’ e Vladimir (tra gli Oblast’ di queste ultime due), la Repubblica dei Mari si situa più a sud, nella parte orientale del bassopiano orientale europeo, una zona povera di risorse naturali particolarmente preziose, se si eccettua l’enorme quantità di acqua dovuta alla presenza di centinaia di fiumi di varia grandezza, a partire dalla presenza del monumentale Volga. Forse anche per questo i Mari sono riusciti durante i quasi cinquecento anni di dominio russo a mantenere una propria autonomia sia da un punto di vista strettamente governativo che per quel che concerne il proprio credo: mescolando elementi pagani ad altri mutuati dal ortodosso, i Mari hanno dato vita a un complesso pantheon, in un sistema deistico che prevede la presenza di alcune divinità legate alla natura, di altre prese in prestito dai cristiani (San Pantaleone, per esempio) e di semidei umani e materialmente visibili in carne e ossa. Un universo a se stante che merita ben più di un approfondimento.

Ed è proprio questa la sfida lanciata da Fedorchenko attraverso Celestial Wives of Meadow Mari: come si trattasse di un compendio di storia antropologica del popolo, il film si limita a narrare ventitré storie, tutte interamente concentrate sulla figura femminile e sul rapporto con l’altro sesso. A volte si tratta di veri e propri racconti, altre volte più semplicemente si ha a che fare con abbozzi di narrazione, sprazzi di luce che illuminano le usanze e il sistema sociale dei Mari: si passa così dall’amore inespresso al racconto dell’orrore – gli esseri che appaiono alle giovani del villaggio durante la “cerimonia del kissel”; lo zombi comandato a distanza per vendicare un amore non ricambiato, una spedizione destinata a fallire grazie all’intervento di un funzionario dell’esercito –, dal fantasy, rappresentato al suo meglio dall’episodio “del chiurlo”, al melodramma, senza dimenticare la commedia, la tragedia, la rappresentazione della quotidianità contadina e via discorrendo. Ciò che ne viene fuori è un trattato sincero, buffo e (auto)ironico su un popolo ancora pressoché sconosciuto al di là dei propri confini geografici: un’opera che sembra lo sposalizio tra il cinema “iconico” di Sergej Paradžanov e il seducente ghigno popolano della “trilogia della vita” di Pier Paolo Pasolini, e come i suoi predecessori riesce a essere nello stesso istante dentro e fuori dal tempo, impossibilitato a essere intaccato dalle minuzie della contemporaneità.

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Elogio all’amore e in particolar modo alla figura femminile (gli uomini sono puri effetti collaterali della donna durante tutto l’arco del film), Celestial Wives of Meadow Mari conferma le eccellenti doti registiche di Aleksei Fedorchenko, e testimonia l’assoluta coerenza di una poetica che ha il coraggio – leonino, se si ha qualche nozione pur minima della struttura sociale russa – di sfuggire alle grinfie di per cercare la propria essenza nelle aree rurali, lontano dal trambusto del potere.

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