BLIND MOUNTAIN [SubITA]

Titolo originale: Mang shan
Paese di produzione: Cina
Anno: 2007
Durata: 95 min.
Genere: Drammatico, Giallo,
Regia: Yang Li

La giovane studentessa Bai Xuemei viene rapita con l’ e venduta dai trafficanti di esseri umani. Stuprata e picchiata, vive come schiava del sesso e sforna bambini circondata dall’indifferenza generale e dall’egoismo degli altri abitanti di un isolato villaggio.

Blind mountain è un film sul non vedere: i carnefici non vogliono vedere la ragazza come un essere umano (è solo un utero con della carne attorno), la vittima non riesce a vedere i suoi torturatori come dei suoi simili (per lei sono solo dei porci).
La cecità degli abitanti del villaggio è costitutiva, non vedono ciò che è al di là delle montagne, lo sguardo non va oltre, rimbalza su loro stessi: può sembrare grottesco parlare di narcisismo in un luogo in cui i maiali hanno più valore degli uomini, ma tant’è. Prigionieri della propria immagine, vedono l’altro solo per la funzione che potrebbe assolvere nella loro comunità: nel caso della ragazza, corpo da riproduzione.

La vittima rifiuta di non essere vista come un essere umano. Prova senza posa a uscire dall’inferno ingiustamente subito, ma ogni volta fallisce. La sua pena non è tanto nella reclusione del villaggio, quanto nel tentativo di liberazione inelluttabilmente frustrato. Come Sisifo, porta il suo peso fin quasi in cima alla montagna, oltre la quale c’è la città in cui sarebbe salva, ma sempre vede rotolare dietro di sè le sue speranze e deve ricominciare l’ascesa del proprio purgatorio. La ragazza traccia nel suo salire per la montagna una sorta di spirale, una linea di ritorno eterno al supplizio, ma la salvezza non viene mai vista, pare allontanarsi come nel paradosso di Achille e la tartaruga.

Il ruolo più odioso nella vicenda è lasciato alle altre vittime, le donne, ormai rassegnate alla loro condizione se non conniventi del sistema di controllo. La fuga dal villaggio è, nella pratica, facilissima: a renderla impossibile è la mentalità cieca del villaggio, l’incapacità di figurarsi l’alterità.

Bisogna ora resistere a due tentazioni: far divenire questo film un’apologia esistenzialista; limitarsi a una critica dell’arretratezza culturale e civile cinese. La prima può essere evitata se si considera che il regista Li Yang tiene a darci delle precise coordinate spazio-temporali: i fatti avvengono nei primi anni Novanta, nello Shaanxi, e per protagonista c’è una laureata senza lavoro. Si può quindi intravedere un riferimento alle condizioni degli universitari dopo le proteste di Piazza Tian An Men, il loro esilio in patria e il soffocamento di qualsiasi istanza libertaria. Considerando poi che lo Shaanxi è la regione che il mito cinese ha eletto come origine del proprio impero, ci si sbarazza anche della semplice critica filomodernista: il film non si limita a un attacco superficiale della mentalità contadina, ma affronta l’imperialismo alle sue radici, adottando la strategia del virus, invisibile ma attivo all’interno del mastodonte cinese.

Blind mountain, si diceva, è un film sul non vedere. In patria rischiava addirittura di non essere visto: la censura cinese ha imposto trenta tagli e un finale alternativo (e ottimista) per la distribuzione interna al paese.
Lo stesso Li Yang quasi ce lo suggerisce attraverso il suo stile, un riflesso del tentativo di ritrarsi ai suoi censori, come se li volesse rassicurare dell’invisibilità di un’autonomia autoriale: movimenti di camera impercettibili (ci si ricorda al massimo di una carrellata all’indietro nella neve), montaggio per spettacolare, scenografia – più che scarna – scarnificata. Il gesto crudele, irrapresentabile per il veto del potere, viene quindi spostato all’esterno dell’inquadratura, risultando  proprio per questo ancora più insostenibile, perché messo in scena in quel luogo compositivo che è l’incoscio di chi guarda e lasciato alla direzione dello spettatore, libero di eseguirlo come meglio crede. Così, anche il gesto ultimo della ragazza (un colpo di mannaia cala sul film nel finale, eliminato da un taglio censorio: un final cut triplo, quindi, eseguito contemporaneamente dalla protagonista, dal regista e dalla censura) viene in realtà lasciato alla rappresentazione dello spettatore, vero carnefice del film.

È difficile infatti resistere alla fascinazione della violenza, alla perfetta reiterazione della pena, al sistema di controllo infallibile perché accettato e svolto dalla maggioranza: è difficile, per farla breve, resistere alla tentazione del totalitarismo. Come in un gioco erotico perverso, in cui l’ottenimento del piacere è solo avvicinato ma mai raggiunto, così la libertà è desiderata ma mai voluta veramente: il vero centro del desiderio è il movimento verso il fine, mai l’acquisizione dello scopo. Una volta che il gioco però diventa insoddisfacente, perché si sa come va a finire, non resta che la soluzione violenta, ovvero un colpo secco per decapitare il meccanismo.

Il gesto finale della ragazza vale come un rovesciamento di ruolo nel gioco: stanca di essere oggetto, finalmente agisce su chi l’aveva torturata e reificata. Per ribellarsi e per affermare la propria esistenza, la vittima sceglie di assumere il punto di vista dei carnefici: “mi rivolto perché non siete”. Non importa sapere come andrà oltre la sua storia: il passaggio di ruolo è avvenuto, la reiterazione assicurata, il meccanismo può continuare.

Guarda anche  VIVA LA MUERTE [SubITA] 🇫🇷 🇹🇳

uzak.it

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By Anam

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