ARREBATO [SubITA]

Titolo originale: Arrebato
Nazionalità: Portogallo
Anno: 1979
Genere: Drammatico, Fantastico, Horror, Sperimentale, Visionario
Durata: 105 min.
Regia: Iván Zulueta

Jose Sirgado, giovane regista in grave crisi personale e professionale, torna a casa dopo aver finito il montaggio del suo ultimo film. Li trova un pacco inviato da Pedro, un vecchio amico scomparso da tempo. Il pacchetto contiene una videocassetta ed una pellicola in super 8, che fa ricordare a Sirgado il suo incontro con Pedro. Il contenuto dei video fornisce a poco a poco al regista i dettagli necessari per seguire la pista giusta svelare il mistero della scomparsa dell’amico.

ARREBATO: IL TORMENTO È L’ESTASI

Ora che, dopo anni di semiclandestinità al di fuori dei confini patrii, è finalmente reperibile in dvd con sottotitoli inglesi (per la tedesca Bildstörung, in una sontuosa edizione doppia che comprende anche un making of, il documentario Ivan Z e il corto Leo es Pardo), è possibile cercare di inquadrare meglio il secondo e ultimo lungometraggio di Iván Zulueta (1943-2009) all’interno del cinema fantastico, non solo iberico.
Si potrebbe definirlo, in breve, la cronaca di una sparizione, o meglio di due: quella del regista di horror José Sirgado (uno straordinario Eusebio Poncela) e del suo doppio, il cineamatore Pedro P. (Will More), rubati al mondo e imprigionati per sempre su una pellicola super8. Ma i livelli di lettura sono molteplici: e trascendono il film, per aggredire anche il nostro rapporto con il cinema e le strade che esso ha preso nel frattempo.

Arrebato è, innanzitutto, una reinvenzione del mito del vampiro che si libera in un sol colpo di canini appuntiti, pipistrelli e morsi alla giugulare: a succhiare la vita e l’energia è l’obiettivo di una cinepresa. È nel bene e nel male un figlio del suo tempo: il prodotto di una società spagnola libera dalle pastoie del franchismo e decisa a riprendersi quanto le era stato negato; il frutto più bizzarro di un movimento sociale e artistico, la movida madrileña, che ben presto si cristallizzerà attorno alla figura anch’essa vampiresca di Pedro Almodovar, il quale qui presta la voce a un personaggio (femminile) di contorno e a Zulueta ruberà attori (Poncela e l’esordiente Cecilia Roth) e intuizioni; e un’interessante ma spericolata commistione tra cinema di genere e sperimentale. È una disperata autoanalisi in forma di film, e l’opera-testamento di uno dei talenti più interessanti e autodistruttivi del cinema spagnolo, minato dalla tossicodipendenza al pari dei suoi personaggi. Ed è, infine, una meditazione sul potere del cinema e sulla complessa relazione tra immagini e realtà.

La tossicodipendenza di Sirgado rispecchia la sua dipendenza nei confronti del cinema: lo vediamo iniettarsi eroina, e poi divorare con gli occhi le immagini del rullino in super8 di Pedro, incapace di staccare lo sguardo dallo schermo. La sua addiction rispecchia quella del suo alter ego: Pedro P. è fin dal nome un Peter Pan che rifiuta di crescere, un dodicenne in un corpo da trentenne che passa le giornate a filmare il mondo circostante alla ricerca dei “ritmi occulti” delle cose: le riprese di Pedro realizzate con la tecnica del time lapse, via via più astratte e stupefacenti, mostrano un’altra realtà nascosta sotto la superficie delle cose, che solo il filtro della cinepresa riesce a svelare.
L’eroina e il cinema hanno la medesima qualità dicotomica. Da un lato donano la serenità che José e Pedro cercano disperatamente e aprono loro le porte di una percezione negata ai comuni mortali. Dall’altro, li alienano dal mondo reale, privandoli di ogni energia vitale e spingendoli a desiderarne sempre più. Per loro tramite, Zulueta fotografa la propria discesa nell’abisso. Gli ultimi giorni di Pedro sono una parafrasi della discesa agli inferi di un tossicodipendente terminale: perennemente sospeso in un dormiveglia nebuloso, senza più fame né sete, esce di casa solo per prendere la “dose” successiva, il rullino super8 che gli servirà per avvicinarsi a quell’estasi che sfiora per lo spazio di fotogrammi ma di cui, una volta sveglio, non ha più memoria. Una volta scoperto il suo destino, José ne seguirà le orme fino a identificarsi e diventare un tutt’uno con lui.

La “magnifica ossessione” di José e Pedro conduce a una sorprendente visione metafisica applicata al cinema. L’esperienza mistica che Pedro insegue, l’arrebato, il “rapimento” ascetico associato alla della nozione del tempo e di sé di fronte al puro fluire delle immagini, si trasforma in un “rapimento” fisico analogo a quello dei cristiani nell’Apocalisse. Per Zulueta, l’immagine di un oggetto impresso su pellicola non condivide la medesima realtà ontologica dell’oggetto filmato: e filmare diventa un modo per dare trascendenza a oggetti finiti, elevandoli a un’altra dimensione e rendendoli eterni. Non sarà Dio a salvarci, ma il cinema.
«Non sono io che amo il cinema, è il cinema che ama me» dice Sirgado. Un amore che esige un tributo di sangue, perché Pedro e Sirgado possano soddisfare il loro desiderio: diventare parte della propria ossessione. Diventare immortali come le immagini impresse sul film: «Sine vita vivens, sine morte mortuus». Zulueta (come i suoi alter ego di celluloide) prende alla lettera la massima di Orson Welles: «Living for filming, rather than filming for living», e porta fino alle estreme conseguenze la celebre equazione di Cocteau sul cinema come «morte al lavoro». Alla fine del film Sirgado si lega una benda sugli occhi e si appoggia al muro di una nuda stanza, davanti all’obiettivo della cinepresa, come un condannato davanti al plotone di esecuzione. Sacrifica la propria vita per il cinema, perché solo il cinema è vita.

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È un finale sorprendentemente simile all’incipit di Blue Movie di Cavallone, con l’ della cinepresa come un mitra: il cineasta basco e quello milanese partono da esperienze opposte, ma entrambi si avvicinano a un tema analogo, il cinema come atto ed esperienza estremi e assoluti, dall’una e dall’altra parte della cinepresa. Un percorso che continua anche dopo che il film è finito. Dopo Arrebato, Zulueta – distrutto fisicamente e psicologicamente per l’abuso di eroina – si ritira dal cinema e finisce a fare il cartellonista per Almodóvar; Cavallone abbandona le ambizioni residue e si dà al porno con l’alias Baron Corvo. Un sovrappiù extradiegetico che solidifica l’aura mitica di cui Arrebato ha goduto nel corso degli anni: è un cinema che offre un’illusione romantica di sconfitta, e se ne bea; è autodistruttivo, senza compromessi e anzi con un compiacimento maudit non solo di facciata. É un cinema, insomma, per cui vale ancora la pena coltivare un culto, e che per lo stesso motivo a trent’anni di distanza ci sembra così distante, a stretti obsoleto, un come eravamo e non saremo mai più.

Oggigiorno non c’è spazio per un approccio così puro e devoto. L’ di una mistica applicata alla settima arte è inapplicabile, dopo i fuochi d’artificio del postmoderno: un atto di annullamento e di martirio come quello di Sirgado (e di Zulueta) non è più concepibile, né per il pubblico nè per i cineasti, in parte perchè l’idea ludica del cinema ha preso il sopravvento su quella sacrale, in parte perchè il concetto di “limite” è andato perduto, nella corsa a creare esperienze sempre più estreme e totalizzanti. L’arrebato è ormai altrove, forse nel tempo infinito che intercorre tra un refresh e l’altro di una pagina web.

Recensione: filmidee.it

 

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By Anam

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