
Titolo originale: A Hard Problem
Paese di produzione: USA
Anno: 2021
Durata: 109 min.
Genere: Drammatico, Fantascienza
Regia: Hazart
Mentre impacchetta la sua casa d’infanzia dopo la morte della madre, Ian lotta per riallacciare i rapporti con la sorella che lo ha abbandonato. Con l’aiuto di uno sconosciuto, Ian elabora il suo passato e fa i conti con il suo futuro.
Cosa accade quando il cuore umano si rompe e al suo posto si apre un portale? A Hard Problem non è un film, è un varco. È uno di quegli esperimenti cinematografici che non ti parlano all’intelletto, ma ti arrivano dritti nella corteccia dell’anima, come una scarica elettromagnetica mandata da un satellite invisibile. Diretto da quella creatura bifronte che si firma Hazart, questo film è una meditazione ipnotica sulla coscienza, sull’identità e sull’illusione della realtà. Una parabola quantistica mascherata da dramma interiore.
Ian ha appena perso la madre. E già qui siamo fuori dallo schema: la morte in A Hard Problem non è mai fine, ma innesco. Innesco di un viaggio psichico che lo spinge – o meglio, lo costringe – a decostruire ogni forma di certezza. Accompagnato da Olivia, figura enigmatica che sembra uscita da una clinica sperimentale di Gregory Bateson o da una sezione segreta del Progetto Montauk, Ian si immerge in una ricerca spirituale e filosofica che ricorda più un rituale di disgregazione alchemica che una narrazione lineare.
Hazart non racconta. Hazart evoca. Lavora di omissioni e simboli, di respiri e silenzi. Le immagini sono spesso lente, rarefatte, avvolte da una colonna sonora che sembra composta da uno sciamano elettronico. Il tempo si piega, i ricordi si intrecciano con i sogni, e la percezione del sé implode come una stella nera. Questo film è l’antitesi dell’intrattenimento: è un’operazione chirurgica sull’ego.
Il “problema difficile” a cui allude il titolo non è solo il dolore o la morte, ma la coscienza stessa. L’enigma che tormenta filosofi, scienziati e mistici: cosa fa sì che un organismo diventi consapevole? Cosa siamo, davvero, sotto la maschera del linguaggio e dei ricordi indotti? Cosa resta se togliamo l’“io”? Il film sembra citare implicitamente le domande di Thomas Metzinger, i viaggi mentali di Terence McKenna, i sogni biologici di Rupert Sheldrake.
Ma attenzione: non è solo una masturbazione intellettuale. A Hard Problem ti tocca visceralmente. È cinema che ti svuota e ti riempie. Che ti destabilizza con dolcezza, come un veleno lento che risveglia cellule dimenticate.
In un’epoca in cui il cinema è diventato intrattenimento sterile, algoritmo emotivo e storytelling da social media, questo film è una scheggia anacronistica, una forma di resistenza artistica. Un’invocazione a ricordare che siamo più che carne, che il dolore non è un errore di sistema ma il primo indizio della via.
Hazart ci ricorda che l’anima non si misura con strumenti scientifici, ma con il coraggio di chi osa perdersi.
“Sei pronto a scoprire che il tuo sé è un’illusione ben architettata? A cadere nel pozzo quantico del cuore?”
A Hard Problem non ti aspetta. Ti inghiotte.
E tu, se sei abbastanza disperato o abbastanza sveglio, potresti anche uscirne nuovo.
