VULCANIZADORA (SubITA)

Titolo originale: Vulcanizadora
Paese di produzione: Stati Uniti
Anno: 2024
Durata: 80 min
Genere: Drammatico, Grottesco, Spirituale, Visionario
Regia: Joel Potrykus

Un uomo solitario vive all’interno di un’autofficina abbandonata, completamente isolato dal mondo. Le sue giornate scorrono tra rituali ossessivi, piccole esplorazioni urbane e rifiuti culturali accumulati come altari. Ma quando un evento apparentemente banale rompe la ripetizione del suo quotidiano, si innesca una lenta ma inesorabile discesa verso una forma di trascendenza – o di annientamento.

Ci sono registi che raccontano storie, e poi c’è Joel Potrykus, che incide sintomi. Vulcanizadora non è un film: è un fungo spuntato sull’asfalto marcio della coscienza americana. Un racconto claustrofobico, low-budget e senza compromessi, in cui il reale implode e genera un misticismo di ferraglia, polvere e disperazione. Qui il protagonista è un relitto umano incastonato nel mondo post-lavoro, post-lotta, post-tutto: vive in un garage abbandonato, si nutre di snack, dorme su un divano sventrato, e guarda VHS come fossero testi sacri. Non lavora. Non parla. Esiste. O forse resiste.

Il titolo Vulcanizadora richiama luoghi di riparazione, officine sgangherate dove si rattoppano pneumatici. Ma nessuno qui vuole essere riparato. Il protagonista non è un redento, è un eremita contemporaneo che ha deciso di abbandonare la narrazione lineare della civiltà. La sua è una ribellione passiva, una forma estrema di ascetismo suburbano, una discesa nello smaltimento dell’identità.

La macchina da presa di Potrykus non cerca mai l’empatia: osserva, pedina, intrappola. Il tempo si dilata, le inquadrature si incrostano, la trama evapora come il senso stesso del vivere in una società iperproduttiva. Ogni gesto quotidiano – bere una birra, guardare il nulla – diventa un atto rituale, un mantra laico. In questo senso, Vulcanizadora è anche un film spirituale, ma nel modo più feroce possibile: Dio è assente, ma l’abisso è presente. Sempre.

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C’è una scena (non la citerò, perché questo film va esperito, non spoilerato) in cui tutto si ferma, e nel silenzio si sente solo un battito. È in quel momento che capiamo: non stiamo guardando un uomo che muore, ma un uomo che rinasce. Senza pelle. Senza parole. Come una divinità secondaria scartata dai miti.

Il film è anche una critica radicale alla mitologia americana del successo, del riscatto, del self-made man. Qui il self è già stato fatto a pezzi, e ciò che rimane è puro detrito ontologico. Ma attenzione: non c’è nichilismo, solo una lucidità brutale. Vulcanizadora ci dice che forse il vero atto rivoluzionario oggi è non produrre, non partecipare, non redimersi.

Potrykus continua la sua crociata contro la normalizzazione, con uno stile sempre più spoglio, marcio, eppure poetico. I suoi film sono discariche mistiche dove lo spettatore può inciampare in qualcosa di sacro. O di morto. O tutte e due le cose insieme.

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