TWO SISTERS [SubITA]

Titolo originale: Janghwa, Hongryeon
Nazionalità: Corea del Sud
Anno: 2003
Genere: Drammatico, Horror, Thriller
Durata: 115 min.
Regia: Kim Ji-woon

Two Sisters è un film lento. Lo spettatore occidentale, ormai assuefatto all’imperativo di economia hollywoodiano, che postula la necessaria espunzione di qualsiasi elemento non concorra funzionalmente al dipanarsi della vicenda narrata, potrebbe esserne annoiato. Eppure qualcuno potrebbe obiettare che di tempi morti e di silenzi si nutre anche la poesia. Il cinema orientale, anche sul versante dell’intrattenimento, mostra sempre di esserne ben conscio (l’esempio più estremo e pregnante di questo binomio -poeticità è senza dubbio il cinema di Weerasethakul) e questo Two Sisters, uscito nel 2003 per la regia di Kim Ji-woon, non fa eccezione.

Con le cadenze di una filastrocca ipnotica e inquietante, scandita dal ripetersi ritmato di refrains e rime interne, eppure dalla metrica spezzata e claudicante, il film si articola in una struttura a scatole cinesi (pardon, coreane) densa di ripiegamenti, compenetrazioni tra piani temporali, biforcazioni e vicoli ciechi, allusioni appena accennate che si rivelano determinanti. Tutto questo contorcere può in effetti generare una certa confusione, tanto più che la spiegazione finale, con tutti i colpi di scena del caso, non è immune da ingenuità.

Innegabile è però l’abilità con cui il tutto è gestito in termini di economia delle parti e dei tempi, con una finezza di scrittura davvero certosina, tutta basata sugli impliciti e i sottintesi. Allo stesso modo, nonostante la da molti lamentata (ma lentezza non significa piattezza: quanti film ipercinetici mancano di ritmo!), non si può negare che il film sappia come mantenere sempre la tensione, che striscia sottopelle anche nei momenti più rilassati, in un crescendo per gradi discreti studiato alla perfezione. E questo nonostante il film scivoli gradualmente dall’horror d’atmosfera al thriller psicologico per sfociare inesorabilmente nel melodramma familiare (approdo o componente spesso ineliminabile del cinema d’oriente, dal wuxiapian alla Yimou alle malinconie di Wong, da Chan-wook fino al Miike di Audition, che tra l’altro è qui citato fin troppo esplicitamente).

Chi si aspetta i babau di posticci fantocci in trasferta dall’oltretomba rimarrà dunque deluso, le poche apparizioni (che sembrano inserite quasi ad assolvere il solo compito di rispettare i dettami di un genere, quello orrorifico, cui il nostro solo tangenzialmente può essere riferito, col risultato che il film potrebbe benissimo funzionare anche senza) sono fortunatamente gestite senza mai mostrare troppo e i risultati sono davvero potenti: una su tutte, la scena del cucinìno, costruita così bene che è impossibile non sentire un brivido lungo la schiena.

Ma la parte del leone la fa innanzitutto l’atmosfera, ed ecco allora che assistiamo alle ipnotiche danze notturne di impalpabili figure ammantellate inclini al sonnambulismo, a porte cigolanti che si schiudono su labirintici corridoi illuminati da lampade fioche o dai tenui raggi che filtrano attraverso le tende serrate, ai giochi di luce e ombra finemente ricamati sui colori sgargianti delle tappezzerie, e tutto è come immerso in quest’atmosfera sospesa, irreale, artificiosa e profondamente onirica, largamente debitrice della lezione lynchiana, sia nell’uso delle luci di cui si è appena detto, sia nella distorsione ansiogena e straniante del sonoro, quasi presenza e alito spettrale esso stesso.

Tutto ciò contribuisce a dare l’impressione di una messinscena del subconscio, in cui si muovono ed operano proiezioni di istanze psichiche e non personaggi in carne ed ossa (proprio come, fatte le dovute proporzioni, in Lynch), e tale impressione sarà poi effettivamente confermata quando gran parte dei fatti si rivelerà essere nient’altro che l’estroflessione di una psiche turbata. Sarà allora chiara la valenza simbolica rivestita dalla casa, diabolico congegno fagocitante in cui oggetti e persone si dissolvono nel nulla e riappaiono impensabilmente, sorta di Overlook Hotel in miniatura che affastella e confonde memorie e visioni, percezioni e desideri, come tra le pieghe di una mente sconvolta.

Per raccontarcela Kim Ji-woon si serve di una regia composta, geometrica, che predilige la costruzione complessa dell’inquadratura (ad es lo specchiarsi della matrigna prima di coricarsi) e il dettaglio lirico (esempi ce ne sono a bizzeffe), ma sa anche fare un uso accorto dei movimenti di macchina (la rotazione a 360 gradi attorno a Soo-mi e alla matrigna con conseguente agnizione), dimostrando padronanza del mezzo ed anzi ambizioni stilistiche giustificate.

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In definitiva, Two Sisters si muove tra l’autorialità e il sentito lirismo che si esplicano nei magnifici “tempi morti” tanto duri da digerire per chi punta solo a sapere come andrà a finire, le esigenze d’intrattenimento dettate dal genere (assolte pienamente e con grande maestria) e un inquieto onirismo di fondo che costituisce il maggior motivo di fascino della pellicola.

Certo, potranno tornare alla mente precedenti più o meno vicini (Il Sesto Senso, Ringu e compatrioti, soprattutto The Others), ma ci si renderà anche conto dell’uso niente affatto passivo o deteriore del materiale offerto dalla tradizione, anzi persino che il film non sfigurerebbe per nulla accanto a quelli summenzionati. Se poi si aggiunge il fatto che il tutto è confezionato impeccabilmente dal punto di vista formale ed è anzi una gioia per gli occhi, nonostante certe forzature e artificiosità nello sbrogliamento dell’intreccio, non si può che dare un caloroso assenso a questo carillon affabulatore venuto da lontano.

Recensione: debaser.it

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By Anam

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