
Titolo originale: The Stone
Paese di produzione: Thailandia
Anno: 2025
Durata: 125 min
Genere: Thriller, Drammatico, Azione
Regia: Pae Arak Amornsupasiri & Vuthipong Sukhanindr
Sinossi:
Ake, un giovane in grande difficoltà economica per le cure mediche del padre gravemente malato, decide di portare al mercato degli amuleti sacri l’amuleto paterno per farlo periziare e guadagnare qualcosa. Qui entra in contatto con un mondo affascinante e pericoloso: collezionisti, venditori, influencer, tutti interessati a un particolare amuleto antico e perduto, il Phra Somdej una volta appartenente a una figura dell’underworld. Ake si ritrova coinvolto in una rete di inganni, tradimenti e assetti di potere dove la fede, la verità e il falso si mescolano in un gioco d’ombre.
The Stone abbraccia il crimine come rito e l’illusione come fede. Arak e Vuthipong, al debutto dietro la cinepresa, costruiscono un thriller che non si accontenta del colpo di scena: vuole scavare nel bisogno, nel sacro, nel desiderio di redenzione quando il mondo ti chiede soldi e credenza.
Ake è l’eroe riluttante: deve salvare la vita del padre, ma si trova a barattare pezzi di memoria e di speranza in un mercato dove l’amuleto non è solo oggetto di fede, ma moneta di riconoscimento sociale. Il Phra Somdej — “vero” o “falso” — diventa specchio della sua stessa identità che traballa: il suo desiderio di essere birichino, onesto e disperato allo stesso tempo.
La Thailandia nel film è mosaico culturale: l’amuleto bazaar è un universo parallelo, una zona franca di santi, ciarlatani, corruzione e devozione. L’ambientazione pulsa: bancarelle addobbate, luci al neon, visi di giovani che caricano video per TikTok o YouTube, mani che esaminano pietre antiche con lente ossessiva, mercanti con sguardi predatorii. Il design visivo e la fotografia (spesso lucida, a volte impastata di polvere) creano contrasti potenti: fede di giorno, inganno di notte, trasparenze sfocate nel sudore dell’avidità.
Quel che colpisce è come il film renda visibile la tensione tra il sacro e il profano, il credere e l’inganno. La fede non è idealizzata: è vissuta come peso e come risorsa. Muay, la content creator, è l’intonazione moderna di un archetipo: sa che il click vende, che il mistero attrae, e naviga su quella cruna tra autenticità e spettacolo. Seng “Paradise”, l’esperto di amuleti, è magnetico e ambiguo: tanto venerato quanto sospettato, tanto salvifico quanto pericoloso.
C’è un crescendo che funziona: all’inizio The Stone è mestiere, ambiente, personaggi, misurati; poi la spirale si allarga, i pedinamenti, gli scontri, le minacce, gli inganni. Alcune critiche giuste dicono che la seconda metà del film si perde in espedienti un po scontati — sparatorie, convenevoli morali — ma lo fa con tal ritmo visivo che quasi non importa. Perché la forza del film è anche questo: la sua capacità di renderci complici, di farci giocare in un labirinto dove credere diventa decisione.
Alla fine il confronto non è solo tra vero e falso amuleto: è tra ciò che scegliamo di non vedere, ciò che accettiamo di credere, e ciò che riveliamo del nostro cuore sotto il giogo del bisogno. The Stone non promette salvezza, ma la possibilità di guardare — anche con tremore — cosa siamo disposti a fare quando la fede diventa mercato, quando l’identità diventa merce.
