THE SECOND ACT (SubITA)

Titolo originale: Le deuxième acte
Paese di produzione: Francia
Anno: 2024
Durata: 80 min
Genere: Commedia
Regia: Quentin Dupieux

Le Deuxième Acte è la nuova bizzarria di Quentin Dupieux, che per l’occasione trova accoglienza come titolo di apertura di Cannes 2024. Riflessione non nuova all’interno della poetica del regista transalpino (sui concetti di realtà e di finzione), corroborata da un cast di tutti divi in grande spolvero, da Louis Garrel a Vincent Lindon, passando per Léa Seydoux.

Attori e comparse
Florence è determinata a presentare l’ dei suoi sogni, David, a suo Guillaume. Tuttavia David non condivide i sentimenti di Florence ed escogita un piano per dissuaderla dal suo affetto spingendola verso Willy, un amico comune. I destini di questi quattro individui si incrociano in un ristorante isolato in mezzo al nulla. [sinossi]

Quante volte si è provato un senso di sperdimento durante la visione di un film, magari perché la colonna sonora ha avuto un picco emotivo inatteso e soprattutto un po’ indigesto, costringendo occhi e orecchie a piegarsi alla più frusta constatazione, vale a dire quella di trovarsi a tu per tu inevitabilmente con un’opera di finzione? Sulla dicotomia vero/falso si gioca una parte non indifferente dell’intera storia del cinema, e la squadriglia cinefila di cultori del cinema di Quentin Dupieux sa benissimo cosa aspettarsi da questo strano cineasta parigino che in tempi antichi, quando ancora si dilettava soprattutto con la musica, amava firmarsi come Mr. Oizo. Quasi l’intera filmografia di Dupieux, a ben vedere, si articola attorno alla dialettica tra realtà e finzione: basti pensare al recente Daaaaaali!, sogno dentro un sogno dentro un sogno di uno dei più onirici artisti del Novecento; a Yannick, con gli attori sul palco che vengono sequestrati da uno spettatore che non sta gradendo lo teatrale e pretende di poter inserire la propria verità nel testo; al metalinguismo di Le daim, con un magistrale Jean Dujardin così ossessionato dalla sua giacca di pelle di daino da arrivare a uccidere per lei (girando nel frattempo un film amatoriale). Senza ovviamente scomodare il titolo più evidente di tutti, quel Réalité che dieci anni fa consacrò una volta per tutte Dupieux e il suo approccio alla materia cinematografica. Senza mai smentire la propria poetica, il cineasta si è inserito sempre più in profondità nelle radici della produzione nazionale francese, al punto da poter oramai contare su uno stuolo di celebrità pronte a recitare per lui, e su un’attenzione mediatica che era inimmaginabile qualche anno fa.

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Lo testimonia al di là di ogni ragionevole dubbio Le Deuxième Acte, quattordicesimo lungometraggio diretto da Dupieux che ottiene l’ e l’onere di aprire ufficialmente la settantasettesima edizione del Festival di Cannes. Una collocazione oramai quasi esclusivamente riservata alle produzioni transalpine, e che spesso contribuisce a sonore delusioni, come ad esempio (solo fermandosi agli ultimi due anni) Jeanne du Barry di Maïwenn e Cut! Zombi contro zombi di Michel Hazanavicius. Legittimi erano dunque i dubbi che accompagnavano la visione di Le Deuxième Acte, anche vista e considerata l’iperattività di Dupieux, capace oramai di sfornare un nuovo film ogni sei mesi. Come si anticipava dianzi il tema portante del film è la rappresentazione, la vita come e il cinema dunque come finzione di una finzione, in un gioco di di materiali che non permette mai allo spettatore di potersi considerare davvero “al sicuro”, certo che ciò che sta vedendo sia collocabile in qualche modo in una ideale casella “finzionale”. Allo stesso il regista non modifica il suo stile, dominato da bruschi cambi di prospettiva, da dialoghi fitti e sempre sul filo del nonsense, da situazioni tirate fino alle estreme conseguenze. Il parterre de roi stavolta vede in scena un fedele sodale del regista (Raphaël Quenard, qui alla quarta collaborazione con Dupieux dopo Mandibules, Fumer fait tousser, e Yannick) circondato da tre delle star più conclamate dell’industria francese, vale a dire Léa Seydoux, Louis Garrel, e Vincent Lindon. I quattro sono rispettivamente Willy, Florence, David e Guillaume, della ragazza, ma in realtà sono anche gli attori che interpretano quei ruoli, ma che hanno gli stessi nomi dei personaggi in scena. Agli occhi degli spettatori sono dunque allo stesso tempo i divi della “realtà”, gli attori di una prima finzione, e i personaggi interpretati da quegli attori.

In questo gioco di stratificazione Dupieux inserisce lunghi dialoghi in cui si discute di tutte le ipocrisie di un mondo, quello del cinema, fattosi sempre più residuale ma allo stesso dominato da un falso perbenismo in fin dei conti reazionario, mai eversivo, che ha ucciso progressivamente qualsiasi impronta di verità, di onirismo, di dirazzamento dallo schema predetto (non casuali le scelte musicali, tra cui spiccano i recuperi delle colonne sonore di Adua e le compagne e Django). Di realtà, per l’appunto. E allora va benissimo che il regista del film nel film sia un’intelligenza artificiale, con cui non si può discutere, che pretende anche di gestire orari notturni degli attori, decurtando i loro stipendi per qualsiasi impresa personale non prevista dal copione, o dal contratto. Va benissimo perché quello che Dupieux vuole sottolineare non è tanto l’invasione delle cosiddette AI, ma quanto queste a conti fatti già siano state accettate come elemento giusto da produzioni che hanno tagliato da tempo i rami fertili dell’invenzione, del surrealismo, del grottesco, preferendo una patina sempre identica, che livella qualsivoglia differenza possibile, uniformando un prodotto che da arte si è fatto intrinsecamente mercato, senza possibilità di trovare più condotti d’aria salvifici. Ecco dunque che il secondo atto, quello centrale, è anche quello della resa dell’umano a qualcosa di superiore, di sovra-umano ma anche sovranazionale, che renderà tutto anodino, privo di vita come questi corpi attoriali che non sanno far altro che ridere di chi ha un ruolo minore del loro, preferendo tenere le distanze. Le Deuxième Acte si prefigura allora come il più amaro dei film di Dupieux – ma si ride, e anche molto, nel corso della visione –, e privo della benché minima speranza. Le pistole ce le si punta alla fronte o alla bocca, senza più capire se sono vere o oggetti da set, e si torna a vite mediocri, a film mediocri, a verità mediocri, mentre il mondo esplode. In questo senso l’inquadratura finale, con la ripresa dei chilometrici binari utilizzati per lo stupefacente dialogo tra Garrel e Quenard (strepitosi tutti gli interpreti, ivi compreso l’eccellente Manuel Guillot impegnato nel ruolo della comparsa che trema troppo per versare del vino al ristorante), appare come un guanto di sfida: potrà mai l’intelligenza artificiale costruire una carrellata? Ma poi viene naturale chiedersi: vorranno ancora le produzioni umane accettare una carrellata, e dunque il del cinema? Il terzo atto, forse, lo svelerà.

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