Titolo originale: Nabat
Nazionalità: Azerbaijan
Anno: 2013
Genere: Drammatico
Durata: 105 min.
Regia: Elchin Musaoglu
Nabat e suo marito Iskender, un ex lavoratore forestale vecchio e malato, vivono in una piccola casa isolata e lontana dal villaggio. La guerra del Nagorno Karabakh prosegue da alcuni anni e il loro figlio è stato ucciso al fronte. Il loro solo mezzo di sostentamento deriva dal latte prodotto dalla loro unica mucca. Nabat si reca ogni due giorni al villaggio per venderlo. Quando la guerra giunge anche lì, però, il villaggio viene lentamente abbandonato da tutti e lasciato deserto. Dopo la morte di Iskender, Nabat deve sopravvivere come un lupo solitario nel villaggio ormai vuoto.
Sullo sfondo del conflitto del Nagorno Karabakh (1988-1992), c’è Nabat, l’ultima Madre, il più ancestrale atto di resistenza che rivendica con costante ritualità il ciclo della vita. La guerra si avvicina dal fuoricampo, assedia lo spazio del piccolo villaggio in cui lei vive, ma non basta, perché la donna procede imperterrita nelle piccole mansioni, esorcizza la guerra mantenendo saldo il vincolo con una memoria che si sta lentamente perdendo. Nabat, una delle opere più significative della 71. Mostra del Cinema di Venezia, si distingue per un’incredibile forza visiva, grazie a uno sguardo che ha vita propria, segue le vicissitudini della protagonista, ma allo stesso tempo si muove nello spazio e costruisce senso, indaga i piccoli dettagli, abbraccia i simbolismi, si pone come atto ultimo di liberazione nei confronti della tragedia imminente. Le inquadrature respirano autonomamente nella danza della macchina da presa che esplora, mostra, interroga. Non vuole solo narrare. Nei lenti carrelli che dialogano con le azioni svolte dalla donna, l’occhio diventa contemplativo e ricerca incessantemente la luce. Perché, anche nel buio della Storia, c’è sempre la possibilità di vedere. E proprio da questa visione ne traiamo nutrimento.
Recensione: spietati.it
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