THE LONG WALK [SubITA]

Titolo originale: Bor Mi Vanh Chark
Paese di produzione: Laos
Anno: 2019
Durata: 116 min.
Genere: Drammatico, Poliziesco, Fantascienza, Fantastico, Horror
Regia: Mattie Do

The Long Walk, il terzo lungometraggio diretto da Mattie Do in sette anni di carriera, è il primo film laotiano a essere presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Il merito va alle Giornate degli Autori, che hanno dato ospitalità a questo strano ibrido tra melodramma e horror, che gioca con lo e ragiona sul concetto di senso di colpa, e di quanto le azioni per superarlo possano produrre orrori ancora maggiori.

Il tempo è un’illusione
Un vecchio eremita laotiano scopre che il fantasma di una di un incidente stradale può riportarlo indietro nel tempo di cinquanta anni, al momento della dolorosa morte della madre. [sinossi]

È davvero salutare che alla Mostra del Cinema di Venezia esistano le sezioni cosiddette collaterali. Senza il lavoro della Settimana Internazionale della Critica – che si limita però agli esordi registici – e delle Giornate degli Autori si correrebbe fortemente il rischio di tornare a casa dal Lido con una visione ristretta del cinema, da un punto di vista sia geografico che di messa in scena. Andando al di là del singolo valore delle opere selezionate, è infatti impossibile non rendersi conto di come la selezione ufficiale tenda a restituire una lettura omogeneizzata della produzione internazionale. Un titolo come The Long Walk (scelto per la distribuzione internazionale al posto dell’originale Bor mi vanh chark) un tempo avrebbe forse trovato collocazione in Orizzonti, ma anche il “secondo” concorso di Venezia si è progressivamente arroccato su posizioni più uniformi e monocolori, evitando di prendersi rischi. E lavorare su un horror che horror non è, e per di più proviene da una zona ben poco battuta come il Laos di rischi che comporta, eccome.
Per quanto sia nata a Los Angeles, la Mecca del cinema per eccellenza, visto che i suoi genitori avevano riparato negli Stati Uniti d’America durante la guerra civile che durò dal 1959 al 1975 e vide contrapposti i comunisti del Pathet Lao e il governo Reale, Mattie Do ha iniziato a fare cinema al ritorno in patria: unica regista donna laotiana, e primo regista di ambo i sessi a Ventiane e dintorni a mettere in scena un horror, Do si è fatta notare nel 2012 con Chanthaly, horror che ragionava da vicino sugli affetti familiari, per poi rincarare la dose quattro anni più tardi con l’ambizioso – e riuscito – Dearest Sister, visto in Italia al Far East Film Festival di Udine nella primavera del 2017.

The Long Walk rappresenta dunque il terzo tassello di una poetica che sembra farsi film dopo film sempre più chiara. Partendo dagli spunti più canonici del cinema dell’orrore, a partire dall’elemento ectoplasmatico, Mattie Do allarga il discorso tentando da un lato di ragionare sulle relazioni familiari e sul peso del senso di colpa, e dall’altro di mettere in scena il proprio Paese svincolandosi completamente dalla prassi. La pornografia della miseria, il fardello che spinge verso il centro dell’abisso lo sguardo che con troppa facilità si posa su quello che viene comunemente inteso come terzo mondo (e il Laos, come tutto il sud-est asiatico esclusa in parte la Thailandia, ne fa parte), viene completamente ribaltata dall’ottica di Do. Il Laos che mette in scena, spingendosi addirittura nel futuro, è una terra sfiorata dalla modernità – una modernità che cala dall’alto senza che nessuno la richieda, come dimostrano le sequenze che riguardano l’impianto dei pannelli fotovoltaici nell’orto del protagonista e dei suoi genitori – ma in ogni caso, anche nella povertà assoluta, intrisa di una dignità ferrea. Gli elementi più moderni, come la motocicletta che estrae dalle spire della natura l’anziano protagonista nella prima sequenza del film, possono usurarsi, macerarsi, venire divorati dalla ruggine. L’etica no, ed è con quella che si devono fare davvero i conti.
Ecco dunque che The Long Walk, all’apparenza racconto di un uomo che vede gli spiriti e fa morire con dignità (di nuovo) i malati terminali prima che il dolore li annienti, cercando di redimere ciò che non riuscì a impedire per la povera e adorata madre, si trasforma in uno sguardo a tutto tondo su una società divisa tra i culti ancestrali e le invasioni del Capitale.

In quello spazio dicotomico si deve trovare il senso alla propria vita, e l’eremitico protagonista non l’ha mai trovato. Quando riesce, grazie allo spirito di una ragazza che lo segue da quando lui bambino le tenne una mano mentre spirava a seguito di un grave incidente stradale, a superare lo per entrare in contatto proprio con il se stesso bambino, cerca di spingerlo/spingersi a donare l’eutanasia alla madre. Ma uccidere la propria madre con una consapevolezza ancora immatura e infantile può cambiare, e di tanto, il corso della Storia, e tramutare completamente la psicologia di un essere umano. L’elemento orrorifico si fa dunque strettamente psicologico, perché Do dichiara apertamente che non è certo degli spiriti che si deve aver timore, ma delle persone in carne e ossa, e delle atrocità che possono arrivare a compiere. Do dirige con mano ispirata, fuoriuscendo dagli schemi del film di genere sempre all’ultimo istante, quando la strada per il pubblico più smaliziato sembra già ampiamente tracciata. Ne scaturisce un melodramma con tinte oscure che ragiona sulla solitudine, sul dolore, sull’orrore nel senso più ampio del termine, e sull’impossibilità di uscire davvero da sé per tornare sui propri passi. Il passato non si può correggere, solo rendere ancora più efferato e sanguinolento. In qualche modo Do sembra anche suggerire di lasciare il dolore che ha insanguinato il Paese alle spalle, cercando nel futuro, e non necessariamente nel moderno, la chiave per andare avanti, e per maturare.

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