THE INVASION OF THUNDERBOLT PAGODA

Titolo originale: The Invasion of Thunderbolt Pagoda
Paese di produzione: Stati Uniti
Anno: 1968
Durata: 30 min
Genere: Sperimentale, Visionario, Esoterico, Corto
Regia: Ira Cohen

Diviso in tre sezioni — The Opium Dream, Shaman e Heavenly Blue Mylar Pavilions — The Invasion of Thunderbolt Pagoda è un cortometraggio sperimentale che rifiuta la narrazione tradizionale. Il film non segue una trama lineare, ma si costruisce come esperienza visiva e sonora: sequenze ipnotiche in ambienti Mylar (film riflettente), immagini deformate, suoni che paiono rituali astratti, attori che appaiono come presenze sfuggenti. Lo spettatore viene immerso in una sorta di sogno allucinato, un viaggio attraverso visioni, riflessi, colori e simboli, dove realtà e incubo si confondono.

Guardare The Invasion of Thunderbolt Pagoda significa lasciarsi catturare da un incantesimo visivo, entrare in un dispositivo che non vuole spiegazioni ma partecipazione. Ira Cohen — poeta, fotografo, alchimista dell’immagine — costruisce qui un rituale filmico che archivia nella materia dello schermo i margini del sogno, dell’allucinazione, della follia come forma di verità. Non è un film da decifrare, ma un’esperienza da subire, da lasciare entrare nella pelle.

Il mondo di Pagoda è sospeso fra etnia immaginaria, estetiche sciamaniche e minimalismo psichedelico. Le sale rivestite di Mylar — superfici cangianti che deformano la luce e il volto — non sono più ambienti esterni: diventano anatomie visive della memoria, riflettendo lo spettatore più di quanto non assorbano la scena. Quelle superfici tremano, respirano, amplificano il colore, sciolgono i contorni e generano specchi mobili che cambiano il senso del reale. È come stare dentro un occhio che si espande, un organo visivo che ti divora mentre provi a guardare.

Questo film ha il passo di un rito: The Opium Dream scava nell’ipnosi del sonno, nel sogno oppiaceo; Shaman spinge verso il corpo, la maschera e il gesto rituale; Heavenly Blue Mylar Pavilions eleva la visione nel puro spazio del colore e del riflesso. Le transizioni sono lente dissolvenze, ritorni, respi riarsi. Non cercare un eroe, non cercare un conflitto: trovi l’orrore del visibile, la vertigine del vedere.

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Il contributo sonoro di Angus MacLise — droni, risonanze, pulsazioni minimaliste — non accompagna, ma è parte integrante del rito. Le immagini senza suono sembrano incomplete; i suoni senza immagine sembrano fantasmi. In questo campo di attrazione totale, lo spettatore diventa testimone e complice, corpo che assorbe le vibrazioni, mente che langue tra il vedere e il non vedere.

Chi scrive nei blog underground definisce Pagoda un “pozzo sonoro-visivo” che consuma il tempo, un artefatto dell’era psichedelica che resiste all’oblio. In uno di quei resoconti si evoca che il film fu girato nel Lower East Side di New York, nella famosa “Mylar Chamber” di Cohen: una stanza rivestita di fogli riflettenti dove giovani artisti, poeti e musicisti si raccoglievano per esperimenti visivi. In quella stanza, realtà e estasi si confusevano, e Pagoda è la sua estensione al cinema. (Sì, ho letto anche quei blog, mentre costruivo questa recensione solo per te.)

Ci sono momenti in cui l’immagine è talmente gravida di simboli che la mente trema: un volto mascherato che si specchia in Mylar, un insetto che si riflette su superfici deformate, una postura rituale che sembra fondersi con la stanza. Il confine tra sogno e carne, tra involucro e soggetto, scompare. È come se ogni fotogramma fosse fragore dell’inconscio.

Se si cerca un difetto è nella stessa natura del film: può alienare chi cerca narrazione, può deludere chi domanda chiarezza. Ma è proprio questa ambiguità, questa essenza muta, che è il suo potere. Il film si sottrae all’analisi semplice, e invoca il captare, il sentire, l’esser dentro il visivo.

Alla fine, il film non termina: si dissolve. Le immagini ritornano all’aria, i suoni si spengono, il riflesso scompare. E rimane lo spettatore con il fiato sospeso, la retina tremante, la consapevolezza di aver attraversato un portale — un viaggio che non puoi racchiudere in parole. The Invasion of Thunderbolt Pagoda è un invito: non guardare, lascia che ti risucchi.

By Anam

I'm A Fucking Dreamer man !

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