Titolo originale: The Closet
Paese di produzione: Corea del Sud
Anno: 2020
Durata: 97 min.
Genere: Drammatico, Horror, Thriller
Regia: Kwang-bin Kim
A causa di un incidente improvviso, la moglie di Sang-Won (Ha Jung-Woo) muore. Sang-Won ha una figlia Yi-Na (Heo Yool), ma il suo rapporto con Yi-Na diventa imbarazzante. Per recuperare la sua relazione con Yi-Na, si trasferiscono in una nuova casa. Sang-Won cerca di avvicinarsi a Yi-Na, ma non è facile. Un giorno, Yi-Na gli dice che ha un nuovo amico. Da quel momento, lei inizia a ridere. Ma Sang-Won sente strani suoni nell’armadio di Yi-Na e nota segni insoliti da Yi-Na. Sang-Won inizia quindi a fare strani sogni. Yi-Na un giorno scompare. Sang-Won cerca sua figlia, quando l’uomo misterioso Kyung-Hoon (Kim Nam-Gil) viene da lui. Dice a Sang-Won di sapere dove si trova Yi-Na e indica il suo armadio.
Meno incline alle lusinghe del folklore rispetto a quello giapponese o delle Filippine (solo per citare due esempi “vicini”), l’horror sudcoreano si rivela sempre più un interessante punto di osservazione per come mescola influenze a metà strada fra oriente e occidente. Esemplare in tal senso questo The Closet, esordio alla regia di Kim Kwang-bin: lo spunto è dei più classici e noti dalle nostre parti, poiché riguarda il tipico “mostro nell’armadio”, che dalle paure infantili ai racconti di Stephen King (il riferimento naturalmente è al seminale “Il babau”) resta sempre attuale. L’impianto generale della storia, inoltre, deve più di qualcosa al recente rilancio delle ghost stories conseguente il successo di Insidious, di James Wan (nome, non a caso, anch’egli a metà fra più continenti). Eppure, tematiche e umori sono pienamente sudcoreani e la scelta di una bambina-mostro non può non rimandare ai fasti del J-horror, che da sempre costituisce un riferimento forte nel cinema della penisola (si pensi a Two Sisters di Kim Jee-woon). Nel film, presentato in anteprima internazionale al Far East Film online 2020, abbiamo quindi Sang-won, ingegnere vedovo che si trasferisce con la figlioletta In-a in una casa che si dimostrerà appunto infestata, dove a farne le spese sarà proprio la bambina: dapprima apparentemente incline al lato fantastico della cosa e all’amico immaginario che solo a lei si palesa (altro topos del genere), la piccola viene ben presto rapita dalle “cose” nell’armadio, costringendo il padre a rivolgersi a un esorcista e a varcare la soglia dell’aldilà. Come si può notare, non è l’originalità dello spunto a far funzionare The Closet, quanto la fiducia che il regista ripone in un progetto affrontato con polso e un bell’apparato figurativo.
Nelle figure degli spettrali bambini ciechi che spopolano fra i due mondi, il film riesce a ossequiare bene il bisogno iconografico di un genere sempre alla ricerca di mostri incisivi e può così mantenere costante il tasso di tensione e atmosfera. Giocando sapientemente con i toni, Kim Kwang-bin riesce inoltre a lavorare sullo slittamento di senso e ruoli, rimettendo costantemente in gioco le parti dei “buoni” e dei “cattivi”: questo è evidente innanzitutto nel fatto che l’unica figura totalmente positiva della storia, l’esorcista Kyung-hoon, sia sempre a metà fra il serio e il faceto. E poi c’è il vissuto di Sang-woon e I-na, che avrà un peso non da poco nella risoluzione della vicenda e che costringerà lo spettatore a rivedere molte sue convinzioni. Con sagacia, Kim suggerisce come la natura mostruosa dei bambini (altro tema classico del genere horror) ben si presti ai continui ribaltamenti di una storia che cerca le motivazioni e le trova in una società di padri assenti o distratti e figli abbandonati a sé stessi che per questo patiscono le scelte altrui e covano un rancore destinato a produrre odio e mostruosità. In questo modo, il terzo atto del film scivola progressivamente fra i tempi e le dimensioni, fra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra il presente e il passato in cui sono nascosti gli errori. E soprattutto opta per un registro più composito, dove alla onnipresente componente horror si unisce anche una cifra più lirica e empatica circa il dramma che attanaglia tanto il padre, finalmente consapevole delle omissioni e colpe compiute, quanto i bambini che non possono far altro che dar sfogo alla propria frustrazione. Lo aiuta molto in questo senso la capacità della piccola Heo Yul di gestire bene i vari stati d’animo di In-a, tra malinconia, rancore, rabbia e dolore. A lei si affianca un convincente Ha Jung-woo che regala a Sang-won un’aura spesso a metà fra lo scetticismo pragmatico dell’uomo d’affari e la fragilità del padre che deve imparare a combattere per i propri affetti. Una pellicola come sempre identitaria in una cinematografia che continua a riflettere sul senso della propria realtà, che crea un amalgama interessante e coerente con altri titoli coreani dello stesso genere, si pensi a Train to Busan, con la sua commistione di splatter e dramma. La dimostrazione che a volte le sorprese si celano all’ombra delle storie più consuete.
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