RUNAWAY DAY (SubITA)

Titolo originale: Runaway Day
Paese di produzione: Grecia
Anno: 2013
Durata: 86 min.
Genere: Drammatico, Fantascienza, Visionario
Regia: Dimitris Bavellas

Sinossi:
Maria e Loukas, entrambi schiacciati da due mondi diversi — un matrimonio opprimente lei, un debito insormontabile lui — decidono simultaneamente di fuggire dalle loro vite. Nella città grigia e desolata di Atene, vagano come spettri tra marciapiedi e piazze vuote, inseguiti da poliziotti e da un misterioso uomo in nero. Mentre un’epidemia silenziosa si propaga nella metropoli, la loro fuga diventa allegoria di una società in disfacimento: una corsa verso l’ignoto in cui il senso del tempo, dello spazio e del desiderio si diluisce.

Recensione:
“Runaway Day” di Dimitris Bavellas è un viaggio nell’Atene dell’abbandono e della crisi, ma è anche qualcosa che scava oltre la crisi: va a piantare la pala nella terra dell’anima, alla ricerca di un fuoco che sembra spento.
La città — vuota, bianco-nero, trovata in un 16 mm che lascia la grana visibile, come cicatrice — è il primo personaggio del film: Atene non come metropoli ma come corpo ferito, pulsante di debito e di disillusione. Maria e Loukas non fuggono solo da sé stessi, ma dalla società che li ha modellati come macchine da consumare. Loukas è l’uomo che ha già perso il diritto di sperare; Maria è colei che ha dimenticato di desiderare. La loro fuga dunque non è evasione: è resistenza. Un atto di volontà che neanche loro — forse — comprendono del tutto.
Bavellas mescola aspetti da b-movie, da fantascienza anni ’70, a un dramma sociale attuale. I contorni sono volutamente approssimativi: l’epidemia silenziosa, il “uomo in nero”, la massa che se ne va dalla città come un esercito di fantasmi — tutto serve a estrarre dalla realtà greca del debito una verità più ampia: che l’uomo occidentale è diventato un fuggitivo nella propria casa.
A livello formale, ci sono momenti in cui l’immagine si mantiene ferma come monumento e momenti in cui la camera ondeggia, come se l’urto della realtà avesse rotto il telaio. Il ritmo è lento, tagliente, senza concessioni. Le sequenze non temono la ripetizione: è nell’eco che si nasconde il trauma.
Il film mette in scena la dissoluzione: della città, dell’individuo, del tempo. Il “day” del titolo non è più unità, ma ripetizione. Specchio di un’umanità che ha perso l’abitudine al domani. Maria e Loukas non cercano la salvezza: cercano il silenzio in cui poter ancora esistere.
E la cosa più bella è che Bavellas non ha paura del simbolo. L’uomo in nero che insegue Loukas non è solo un personaggio: è la somma di tutte le minacce invisibili — il debito, la vergogna, l’oblio. Il carcere domestico di Maria non è solo matrimonio: è la fossa comune delle promesse non mantenute.
Guardando “Runaway Day” ci si accorge che il tempo si consuma non solo quando si corre, ma anche quando si resta fermi. La città-corpo che respira è già in decomposizione; i protagonisti sono suoi sintomi. In quel grigio invecchiato di pellicola, si legge un avvertimento: la libertà non è lo spazio vuoto, ma la soglia che non si varca.
Allo spettatore, resta una domanda che vibra a lungo: cosa succede quando smetti di essere riconosciuto? Quando finisci per fuggire da te stesso? Il film non risponde. Mostra solo la salita, mentre tutto intorno scivola.
Se il cinema serve ancora a evolverci, questa è la sua prova: non per l’evasione, ma per il risveglio.

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By Anam

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