REMEMORY [SubITA]

Titolo originale: Rememory
Paese di produzione: USA, UK, Canada
Anno: 2017
Durata: 111 min.
Genere: Drammatico, Thriller, Fantascienza
Regia: Mark Palansky

La di un saggio professore scopre tra le invenzioni del marito un congegno capace di registrare e riprodurre la memoria di una persona.

Rememory, presentato al Trieste Science+Fiction Film Festival, ha uno spunto fantascientifico di base, ma per il resto alterna svariati registri, passando dal melodramma al giallo, dal film romantico al thriller spionistico. Il che è a suo modo interessante, considerato il fulcro dello spunto di base: nel futuro prossimo, uno scienziato innovativo e ammirato a livello internazionale, Gordon Dunn, costruisce una macchina capace di registrare le memorie dei suoi utenti/pazienti, per poterle poi riproiettare visivamente con lo scopo di aiutare a guarire le ferite e i traumi delle individuali esperienze pregresse. Una sera, il costruttore di modellini Sam, ammiratore di Gordon e bugiardo patologico rimasto traumatizzato dalla morte del fratello rockstar, resta in macchina davanti alla sede della sua compagnia, la Cortex, aspettando che Gordon esca per parlargli, ma vede due persone entrare e uscire in tutta fretta. Il giorno dopo, si scopre che Gordon è morto. Con un cast ricchissimo che vede tra i protagonisti attori divenuti celebri grazie a prodotti seriali di alto profilo (come Lost, Nip/Tuck e Il trono di spade), Rememory è come un piccolo labirinto in cui perdersi, ricco di idee sia narrative sia contenutistiche, ma che fallisce miseramente nella fase effettiva della rappresentazione. Questo per due principali motivi: il primo sta semplicemente nella gestione della storia, talmente stratificata da richiedere una struttura solida, che però in fase di scrittura finisce per perdersi tra dialoghi prolissi e piccoli buchi sparsi qua e là; il secondo invece sta nella gestione di quello che in fin dei conti è il vero e proprio centro nevralgico della storia, ovvero il ricordo. Come si può rappresentare il ricordo? L’idea stessa alla base del significato della parola consiste in un qualcosa di sfuggente, di appartenente solo e soltanto alla mente, di immateriale a causa dell’evoluzione dell’inconscio. Jonas Mekas, nei suoi film più lunghi, ambiziosi e indimenticabili (Walden, Lost Lost Lost e As I was moving ahead occasionally I saw brief glimpses of beauty), ricostruisce complessi passaggi biografici con una struttura a flusso o turbine, senza costruire una vera e propria ma andando avanti per pura reminiscenza, incasellando ogni tassello dei propri filmati, presi qua e là per decenni di carriera e di vita, con un “sentire” poetico, alieno, lontano da qualsiasi possibile coinvolgimento critico, vicino solamente al cuore. La maniera migliore per delineare l’immagine del ricordo è la sua diretta rappresentazione per quanto riguarda il cinema non-narrativo, mentre sfortunatamente nel cinema più tradizionale e hollywoodiano la manifestazione analettica troppo spesso, di recente, ha assunto i connotati di un tour-de-force retorico nel facile sentimento.

Ne è un interessante manifesto la prima stagione di Westworld, serie fantascientifica curata da Jonathan Nolan e tratta dall’omonimo film anni ’70 di Crichton. I suoi protagonisti si dividono nettamente in e androidi, e di per sé anche le due categorie si suddividono in sottocategorie legate a quanto sono consci del loro ruolo e a come si pongono nei confronti dell’altro. In Westworld, il flashback con i ricordi viene applicato solamente agli androidi, poiché i loro ricordi sono fittizi, immateriali, meccanici, inventati dagli uomini per dare a loro un senso e un’umanità che non appartiene alla loro costruzione. È così che gli androidi, come in Blade Runner, trovano la loro dimensione “more human than human”. I traumi passati, insomma, così diventano in tutto e per tutto una costruzione fittizia che appartiene di per sé al DNA della finzione. La retorica del dramma, in Westworld, trova una propria ironia, che finisce per essere più drammatica del dramma in quanto tale: non vi è un tentativo di far piangere lo spettatore quanto un tentativo di metterlo faccia a faccia con la comprensione del sadismo psicologico che è parte integrante dell’intreccio. Rememory ha l’arduo compito di mettere in campo i ricordi, e, eccetto che nel caso dei ricordi di Gordon e di Sam che meritano uno spazio focale ben più strutturato, li rappresenta con un tipo di montaggio a metà tra la pura informatica di Westworld e l’etereo flusso di immagini consolidato nello stile del Malick da The Tree of Life in poi. Il tutto, solitamente, con un uso eccessivo del POV dei protagonisti dei ricordi stessi. Sovrapponendo visivamente il volto di colui/colei che ricorda con i ricordi stessi, si ha un effetto di vera e propria pornografia del dolore e della linfa vitale, che ironicamente sembra essere la cosa più lontana dalla morale del film, espressa in maniera eccessivamente programmatica e verbosa dall’esplicito finale. Ciò accade ripetutamente nel corso dell’opera, poiché molteplici tra i protagonisti si ritrovano più di una volta a vivere e rivivere i propri trascorsi: non solo Sam e Gordon, ma anche la moglie di Gordon, la sua amante, due suoi pazienti e la sorella di una paziente che si è suicidata. Le stesse riprese vengono ri-montate e ri-inserite nella narrazione fino alla nausea, non più costruendo il lascito di una vita attraverso il cinema ma a questo punto trasferendone l’impatto in direzione di una drastica privazione della vitalità, un cadaverico e furbo mostro di immagini riconoscibili che, ostentate all’infinito, smettono di avere una personalità o un carattere, interrompono il proprio corso di immedesimazione poetica prendendosi troppo spazio all’interno dell’organismo complessivo.

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Ma c’è un “ma”. Anzi, due, entrambi legati all’uso degli attori, ed entrambi solo apparentemente caratteristiche superficiali. Il primo ha a che fare con il protagonista, Sam, che ha il volto e le fattezze di quel Peter Dinklage noto principalmente per essere uno dei personaggi più (giustamente) amati del più gettonato prodotto HBO, Il trono di spade. Dinklage, grande attore teatrale, ha avuto un’enorme sfortuna nella propria carriera, ovvero quella di nascere nano, il che l’ha portato sin troppe volte nella sua filmografia a dover interpretare ruoli scelti appositamente in base alle sue caratteristiche fisiche – diventando poi, difatti, l’attore nano forse più celebre della storia, superando anche Warwick Davis e Michael J. Anderson. Una grande cosa di Rememory, per quanto sia sconnessa dalla sua trama, sta nel fatto che, per una volta, il nanismo di Dinklage non è minimamente parte del suo personaggio e non viene nominato da nessuno degli altri personaggi in campo. La sua prova attoriale lo consacra probabilmente ancora di più tra i più interessanti interpreti del grande e del piccolo schermo contemporanei, poiché molti dei dilemmi etici dell’intera operazione sono rappresentati dal carattere di Sam, da come si muove in determinate situazioni, da come reagisce a determinate cause innescando determinate conseguenze, trasformando Dinklage da “l’attore nano” a “attore a tutto tondo”. Il secondo fattore è invece legato a un attore che ha molto meno tempo sullo schermo, ovvero Anton Yelchin, che interpreta il fratello di Sam, che appare nei vari flashback del protagonista ossessionandolo fino alle allucinazioni. Yelchin, noto principalmente per i propri ruoli nella saga cinematografica reboot di Star Trek, per Terminator Salvation, Green Room, Only Lovers Left Alive di Jarmusch, Dying of the Light di Schrader, è morto nel giugno del 2016, per una curiosa e tragica coincidenza, in maniera simile alla propria morte nel film, ovvero in un incidente d’auto. La dedica a lui nei titoli di coda trasforma in pochi fotogrammi Rememory in qualcosa di più di un film banale e volgare sulla memoria, elevandolo a un piccolo, modesto monumento alla memoria di un uomo, perlomeno, vittima del Caso e della sua brutalità, di un sincronismo spietato. Sia chiaro, non stiamo dicendo che “il film è bello perché l’attore è morto”; ci pare però giusto pensare che la concomitanza di significato tra ciò che il film dice e ciò che la realtà ha portato il film a dire è finita per rafforzare il valore e il del film stesso, non eliminando la banalità ma attenuandola, e ricordandoci che, a prescindere da come l’oggetto cinematografico è di per sé eseguito, le ossessioni che insegue e il suo linguaggio intrinseco rimangono legati ai quesiti che ci poniamo ogni giorno. Che sia una furbizia prolissa o un’idea geniale che sarebbe potuta essere sfruttata meglio, forse non ci è dato capirlo. Non questa volta.

Nicola Settis – cinelapsus.com

 

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