Titolo originale: Post Tenebras Lux
Nazionalità: Francia, Germania, Messico, Paesi Bassi
Anno: 2012
Genere: Drammatico, Visionario, Esoterico
Durata: 120 min.
Regia: Carlos Reygadas
Juan porta la sua giovane famiglia, abituata alla città, a vivere nelle campagne del Messico, entrando in contatto con un mondo a loro distante, con una propria concezione delle cose della vita. Inizialmente affascinato dalla nuova realtà, Juan si ritrova in seguito intrappolato tra due differenti universi complementari che, inconsciamente, combattono per eliminarsi l’uno con l’altro.
Due famiglie di ceti differenti nel Messico d’oggi. E il diavolo. Ricomporre il mosaico di immagini che forma Post tenebras lux può essere utile, ma non per la restaurazione di una possibile narrazione, di un’ipotetica cronologia dei frammenti, di un discrimine labile tra dati e spettri, fatti e fantasie, sogni e bisogni. Ricomporre, qui, è per lo spettatore un invito alla ricerca: ritrovare se e come sono germogliati in una scena i semi gettati in una precedente (o, come di fronte a un film di Dumont, domandarsi ciò che intercorre tra un fotogramma e il successivo) chiedersi a quali fonti (cronaca e credo, memoria e pregiudizio, pittura e folclore, sociologia e autobiografia, psicanalisi e cosmologia) possa essersi abbeverato ogni lacerto di rappresentazione, cercare non solo nei legami di una catena causale d’eventi, ma soprattutto nelle lacune tra i suoi anelli, ciò che è stato forgiato dall’uomo e dagli uomini, dalla natura, dalla storia, dal tempo. Lontano, nonostante il suo sciogliersi nello scorrere delle cose, il suo danzare da un oggetto all’altro, dalla lirica salmodiante di The Tree of Life, dal suo movimento centripeto, Post tenebras lux è opera che si disperde, che si lascia pensare da mondi differenti e in sé accoglie forme contraddittorie e difficilmente conciliabili di pensiero. E’ cinema che registra forze e vettori che costringono il reale, guardando il vero prostrarsi allo stereotipo, è un dispositivo che proietta lo stringersi di immaginario e simbolico intorno all’uomo, opera degli opposti, che insieme segue discorsi macchiettistici, possibilmente ridicoli e guarda a questioni non riducibili, a punti interrogativi indeterminati. E’ la traccia di una dialettica sociale nel Messico d’oggi, la rifrazione scomposta dei conflitti tra tradizione e colonizzazione, tra contingente e mito, la luce che riflette in superficie la tenebrosa ricerca di se stessi e insieme l’esercizio violento della sovrastruttura.
È cinema familiare che s’improvvisa (prole e moglie di Reygadas, infatti, abitano il film), film che testimonia con trasporto la fertilità significante della vita per poi bloccarla, per poi cristallizzarla in gesti parodici, caricaturali, concrezioni simboliche che veicolano un senso unico. A tratti è elegiaca contemplazione del paesaggio e del suo non raccontabile mistero e poi, o insieme, riduzione del suo senso, traduzione strumentale della natura a forma di sentimento dell’individuo, contro l’individuo. Così, nell’immagine di un diavolo rosso neon, c’è la possibilità di una CGI pauperistica, terzomondista, l’ingenuità fanciullesca della rappresentazione del male, qualcosa che balla tra la credulità della fiaba e l’incredula irrisione post tutto. In un uomo che si decapita da sé, con la sola forza delle braccia, c’è il dato iconografico di un’immagine che ricorre nella cronaca, nelle tragedie quotidiane del Sud America, e c’è, a livello narrativo, una visione del senso di colpa, un gesto disperato, una probabile dannazione. Una gang bang in una sauna è l’esercizio di una cinica maniera, una vacua provocazione, l’affastellarsi della satira sul compiacersi intellettuale (sale chiamate Hegel e Duchamp) alle domande sul livello di realtà, su chi sogna chi, lo scandaglio degli orizzonti di un inconscio, di ciò che chiamano perversione borghese, un gesto posticcio e gratuito, una sincera esplorazione.
E in una partita a rugby, anni dopo, lontano, c’è la sensualità della violenza incanalata e fatta spettacolo musicale, erotico, c’è per lo spettatore la ricerca di un protagonista, di un riconoscimento, ci sono fili che tendono al passato, e che chiedono di venire percorsi, sospesi nel nulla. C’è tutto questo in Post tenebras lux, film che non accompagna, che propone un’idea di apocalissi imminente, che s’ammanta compiaciuto d’oscuro, opera che nel suo rivendicarsi come impressione, nel suo imprimere come didascalia visiva, sullo schermo, il suo essere restituzione di una percezione, con quei centri concentrici che segnano l’immagine e la deformano, è la derisione di un mind game movie ai confini dell’impero, l’ipotesi di un cinema antropologico e visionario, che dialoga con la consapevolezza dello spettatore contemporaneo, con i canoni da art film, con il mercato del cinema d’autore, e cerca sempre uno scarto, la vita del cinema tra i fossili di ogni retorica, qualcosa che sia simile al movimento.
Recensione: spietati.it