
Titolo originale: オカルト (Occult)
Paese di produzione: Giappone
Anno: 2009
Durata: 103 min
Genere: Horror, Esoterico
Regia e sceneggiatura: Kôji Shiraishi
Durante le riprese di un documentario su un massacro avvenuto in un sito turistico, il regista Kôji Shiraishi scopre che uno dei sopravvissuti sostiene di essere in contatto con entità ultraterrene. Man mano che le interviste e le indagini procedono, la troupe si trova risucchiata in una spirale di paranoia, fede e orrore cosmico.
Con Occult, Kôji Shiraishi firma uno dei film più disturbanti e sottovalutati del found footage giapponese. Lontano dai cliché del J-horror, questa pellicola è un esperimento a metà tra documentario, possessione e fantascienza esistenziale. È come se The Blair Witch Project fosse riscritto da H.P. Lovecraft e girato con l’occhio febbrile di un reporter giapponese che non sa più distinguere tra fede e follia.
La storia inizia con un evento inspiegabile: un uomo comune, apparentemente senza motivo, accoltella diverse persone in un resort affollato. Da lì, il regista Shiraishi (che interpreta sé stesso) decide di indagare, costruendo un reportage su quanto accaduto. Ma ciò che sembra un semplice true crime si trasforma lentamente in un’inchiesta metafisica: il sopravvissuto Eno, segnato da misteriosi simboli sulla schiena, afferma di essere stato scelto da una forza divina — o demoniaca — per compiere un disegno apocalittico.
Shiraishi gioca magistralmente con la grammatica del mockumentary: interviste tremolanti, camere a mano, riprese notturne, suoni deformati, montaggi che sembrano casuali ma nascondono un ritmo quasi ipnotico. È un film che non spaventa con l’improvviso, ma con il sottile: con la sensazione che qualcosa di immenso e incomprensibile stia davvero accadendo dietro lo schermo.
La forza di Occult è nella sua ambiguità.
È un film sull’ossessione, ma anche sulla necessità di credere. È un horror che non ti dice se l’orrore è dentro o fuori di noi. Shiraishi osserva Eno con un misto di pietà e repulsione, e nel farlo riflette su sé stesso come regista — come manipolatore di immagini e testimone del disastro.
Il risultato è un’opera di un’ambiguità vertiginosa: il documentario che si trasforma in rituale, la realtà che si piega al linguaggio dell’incubo.
In un finale che lascia senza respiro (e che molti hanno definito “lovecraftiano in chiave digitale”), la verità emerge non come rivelazione, ma come contagio: lo spettatore diventa parte dell’esperimento, vittima di quella stessa pulsione che spinge il protagonista verso l’abisso.
Occult è cinema come malattia.
È l’horror che nasce quando la fede incontra la videocamera.
Un film che non vuole farti urlare, ma farti dubitare della realtà.
