
Titolo originale: Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin
Paese di produzione: Regno Unito
Anno: 2019
Durata: 89 minuti
Genere: Documentario
Regia: Werner Herzog
Sinossi:
Werner Herzog intraprende un viaggio in sei tappe sulle tracce dell’amico e scrittore Bruce Chatwin, esploratore del reale e del simbolico. Attraverso paesaggi che hanno definito l’immaginario di Chatwin – la Patagonia, l’Australia, l’Inghilterra dei libri rari, i deserti africani – Herzog costruisce un omaggio intimo e nomadico. Il film unisce testimonianze, oggetti, luoghi chiave e memorie condivise per raccontare non la biografia di Chatwin, ma la sua mitologia personale e il suo modo di “vedere” il mondo.
Recensione:
Ci sono film che non cercano di informare, ma di far vibrare una corda interiore, un po’ come se il cinema potesse diventare un talismano. Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin appartiene a quella categoria di opere che sembrano nascere da una promessa fatta molto tempo prima, una promessa che riguarda la fedeltà non a una persona, ma a una visione del mondo. Herzog non racconta Chatwin: lo convoca. È come se ogni sequenza fosse un rituale di presenza, un modo per riattivare lo sguardo febbrile, inquieto, errante dello scrittore che ha trasformato il viaggio in una forma di pensiero. Il film attraversa territori che sembrano puri simboli: montagne che paiono schegge di un pensiero più grande, deserti che risuonano di un silenzio antico, grotte che custodiscono un’origine mai del tutto raccontabile. Herzog non si accontenta del dato biografico, perché sa che la vita di Chatwin non può essere compressa in un ordine cronologico; ciò che gli interessa è l’energia che l’amico irraggiungibile ha lasciato come scia, quel modo di attraversare il mondo come se ogni paesaggio fosse un frammento di un racconto primordiale. Il film è un ritratto in negativo, un’ombra, una eco. E proprio per questo è potentissimo. Quando Herzog tocca lo zaino di Chatwin, non sta accarezzando un oggetto: sta cercando di afferrare una continuità, un’eredità spirituale che non vuole lasciare scivolare via. Il film è anche il ritratto dello stesso Herzog, ma obliquo, quasi clandestino: mentre parla dell’amico, finisce per parlare di sé, del suo metodo, della sua fascinazione per ciò che vibra ai margini del reale. La loro amicizia, che il film non sentimentalizza, diventa una forma di pensiero condiviso, una fratellanza errante. La morte di Chatwin, attraversata nel film come una soglia che non annulla nulla, porta dentro una dolcezza austera, un riconoscimento dell’impermanenza che non fa sconti ma non cade nella tragedia. Nomad è un film che respira lentamente, come un animale antico. È meditativo, ma non inerte; è pieno di desiderio, di fame di mondo, di un bisogno quasi fisico di far coincidere l’esperienza del viaggio con una domanda metafisica. È, in fondo, un film sulla pelle: la pelle come confine, come mappa, come reliquia, come superficie dove si scrivono storie che nessuno può leggere davvero. Alla fine si esce dal film con la sensazione di essere stati condotti in un paesaggio mentale più che geografico, un luogo dove mito e memoria si intrecciano fino a diventare indistinguibili. Herzog costruisce un’elegia, ma anche un invito: continuare a muoversi, non accettare mai che la realtà sia solo ciò che appare, restare nomadi nel modo di pensare, di guardare, di sentire.
