LOVE EXPOSURE [SubITA]

Titolo originale: Ai no mukidashi
Nazionalità: Giappone
Anno: 2008
Genere: Azione, Commedia, Drammatico, Erotico
Durata: 237 min.
Regia: Sion Sono

L’arte del Tousatsu

Yu è un liceale: da quando sua madre è morta il padre è diventato un prete cattolico. Nonostante il ragazzo viva un’esistenza estremamente pia (con l’idea di dover trovare l’amore in una giovane che abbia le fattezze della Madonna) il padre pretende che confessi i suoi peccati: da principio Yu li inventa di sana pianta, ma quando il padre scopre la bugia decide di trasformarsi in un ninja che pratica come arte marziale il Tousatsu [1], vale a dire le fotografie rubate sotto le gonne svolazzanti delle liceali. Andrebbe tutto bene se non arrivasse in città Koike, una scaltra ragazza che fa parte della cosiddetta Zero Church, un nuovo mutuato sul cattolicesimo; e andrebbe ancora tutto meglio se Yu non si innamorasse di Yoko, la bellicosa e indipendente figliastra della donna che ha appena convinto suo padre ad abbandonare la vita monastica. Tanto più che Yoko disprezza profondamente Yu, ma è in compenso innamorata di Miss Scorpione, ovvero Yu travestito da donna per una scommessa con gli amici…

Tutti i pervertiti sono stati creati uguali.
Yu

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi amore, sarei come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.
Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e l’amore.
Ma di esse la più grande è l’amore!
San Paolo, 1 Corinzi, 13, 1.13

Prendiamola un po’ alla larga: in Giappone solo l’1,4% della popolazione (dati alla mano) dichiara di rifarsi al cristiano. In un paese da secoli dominato dal dualismo del buddismo e dello scintoismo – religioni che possono essere praticate contemporaneamente dalla stessa persona, il che limita notevolmente di fatto la veridicità dei dati sui fedeli – e in cui il cristianesimo fu reintrodotto solo in seguito alla restaurazione Meiji del 1868, era difficile prevedere che il credo europeo per eccellenza potesse attecchire con facilità. Ciononostante è tutt’altro che superfluo notare come sia possibile rintracciare, nello schizoide universo cinematografico nipponico, ben più di un rimando al cristianesimo, per lo meno rimanendo negli ultimi anni: nel 2006 passò al Festival di Locarno Germanium no yoru/The Whispering of the Gods, opera prima di Tatsushi Omori che mostrava le e le contraddizioni di una vita vissuta all’ombra della tonaca. L’opera sollevò qualche granello di polvere – non troppi, a dir tutta la verità – ma apparve più che altro come un gesto provocatorio, in gran parte gratuito; non sarebbero da dimenticare però rimandi alla cultura cristiana presenti in alcuni prodotti di animazione (su tutti Tokyo Godfathers di Satoshi Kon, ovviamente, anche se all’ultimo Future Film Festival ci siamo imbattuti nelle curiose incursioni bibliche presenti in Angel on the Run di Yoshinobu Yamakawa), forse il paradigma più tangibile di una certa fascinazione, quasi iconica – ricordate gli angioletti de L’estate di Kikujiro di Takeshi Kitano? – che il mondo giapponese subisce nei confronti di quella che è, a tutti gli effetti, la religione dei gaijin, come gli abitanti della terra del Sol Levante chiamano gli “stranieri” [2].

Come avrete ovviamente intuito, Love Exposure, tredicesimo lungometraggio di quel Sion Sono che dopo una prima parte di carriera a uso e consumo degli animali da festival (dall’esordio Bicycle Sighs del 1990 al documentario sui generis Utsushimi del 2000) sbancò i botteghini di Tokyo e dintorni con Suicide Club [3], cult movie in mezzo mondo, vede la propria trama ruotare interamente intorno al cristianesimo, e per l’esattezza alla religione cattolica. È anche il caso di far notare come si sia citata, nella sinossi che trovate in testa alla recensione, solo la prima ora di Love Exposure, e in maniera tutt’altro che esaustiva: se ci fossimo dovuti addentrare con dovizia di particolari nei meandri della magmatica opera di Sono probabilmente sarebbe stato necessario dedicare un’intera pagina solo alla trama. Nelle quattro ore in cui si dipana il film miriadi sono infatti gli avvenimenti, i cambi di prospettiva, le digressioni, tanto che a prima vista Love Exposure può essere fin troppo facilmente scambiato per un’opera prolissa, financo faticosa da seguire. Ma si tratterebbe di un errore di valutazione a dir poco criminale! Ciò che abbiamo riscontrato, durante la visione avvenuta nel Teatro Nuovo Giovanni da Udine durante le giornate del Far East Film Festival, è stata al contrario la naturalezza con cui Sono fa procedere la sua creatura: non vi è nulla di superfluo, nulla di evitabile, in questa d’amore e redenzione, anzi. Nella sua fagocitante foga affabulatoria, il cineasta nipponico non dimentica mai per strada le direttrici essenziali di Love Exposure, né permette ai suoi personaggi di uscire mai dai canoni di scrittura che gli ha cucito addosso. Love Exposure è altresì uno straordinario saggio psicologico sull’insopportabile, invincibile peso dell’amore: non solo letto attraverso il personaggio chiave di Yu (che ha perso per sempre l’amore della madre, cerca di riconquistare quello del padre e vorrebbe essere in grado di esprimere appieno quello per Yoko), ma anche nel pedinamento dell’universo che gli gravita attorno. Se Yoko deve essere necessariamente letta come immagine riflessa di Yu, suo speculare completamento, ammettiamo di aver sgranato gli occhi per la meraviglia soprattutto di fronte alla messa in scena del personaggio di Koike: laddove la sua peculiarità da principio sembra quella di fungere da elemento disturbante nella catena di eventi che toccano in sorte al malcapitato Yu, poco per volta ci viene dispiegata davanti agli occhi una mappa talmente ramificata e complessa da meritare un approfondimento a parte.

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Koike è la raffigurazione, dolorosamente grottesca e malignamente sublime, dell’intero percorso di conoscenza di sé, e accettazione del proprio ruolo di esseri umani, che è in fin dei conti alla base del progetto cinematografico portato a termine da Sono tout court; nel suo amore represso e fustigato nei confronti di Yu (e destinato a trasformarsi in sadismo, crudele quanto sofferto) vive quel sottile senso di frustrazione ed eccitazione che tutti i personaggi del film provano verso l’atto del peccare. Il peccato, in Love Exposure, è l’unica possibilità data all’uomo per far avvertire la propria presenza: la punizione – la Zero Church – ne è la sua conseguenza malata, il perdono – quello che Yu cerca nel padre, ma non solo – quella sana. Una riflessione, questa, che acquista un peso perfino politico, come le immagini di Shibuya in rivolta che accompagnano il resoconto della di Yoko (Love Exposure è diviso in capitoli, attraverso i quali veniamo resi edotti delle vicende pregresse vissute dai protagonisti) o come quell’universo rock, così distante dall’apparente candore della/e chiesa/e, che irrompe in modo eversivo a minare il corpus narrativo – Kurt Cobain, Patti Smith, le Runaways, Nina Hagen. A tal proposito è interessante notare come l’utilizzo delle musiche scelte da Sono abbia un che di dogmatico, o per meglio dire di religioso [4]: il celeberrimo Bolero di Maurice Ravel, la Sinfonia n. 3 di Saint-Saëns, la Marcia funebre di Henry Purcell, per non parlare del trascinante surreale racchiuso in Hollow Me degli Yura Yura Teikoku, vengono utilizzati a mo’ di refrain, quasi potesse la musica fungere da ideale pro-memoria per quel che concerne le attitudini dei personaggi, le loro personalità, i loro istinti.
La macchina/cinema in mano a Sion Sono diventa da subito qualcosa di liquido, capace di intrufolarsi nelle intercapedini del nostro pensiero e inabissarle: nel turbinio di ipotesi e riflessioni che il regista nipponico ci pone davanti agli occhi, è possibile incontrare apparentemente in aperta contraddizione come le due citazioni con le quali abbiamo aperto la nostra disamina. C’è chi, in modo a dir poco improvvido, ha pensato bene di portare alla ribalta, come ideali vati di Sono, i nomi di Woody Allen e Quentin Tarantino: se il secondo è diventato un po’ la panacea di tutti i mali della critica, per lo meno quando si ha a che fare con opere che questa non sa come classificare – e con il cinema giapponese trattasi di pratica quasi quotidiana – il cinema di Allen Stewart Königsberg è stato tirato fuori solo perché, in fin dei conti, Love Exposure non è altro che una commedia mascherata da profonda riflessione filosofica, o il contrario se preferite. Ma al di là del fatto che si ragioni sulla religione e sulla sessualità, davvero non riusciamo a comprendere quale aspetto della cinematografia di Allen dovrebbe essere riscontrabile tra le pieghe di Love Exposure. La verità è che Sion Sono ha firmato una delle opere più concettualmente ed esteticamente libere tra quelle viste in giro nel corso degli ultimi anni: muovendo la videocamera a suo piacimento, spaziando dalle riprese con grandangolo che riportano alla mente derive di di un certo cinema a basso costo, agli zoom anarcoidi degli action-movie degli anni ’70, senza preoccuparsi di poter improvvisamente raggelare l’azione e immobilizzarla (ed è così che ci viene regalata la stupefacente sequenza della spiaggia, dolce disperata e insostenibile), Sono arriva a dimostrarci le potenzialità infinite del cinema, la sua essenza cerebrale e nel medesimo tempo e nel medesimo spazio straordinariamente passionale.
Se proprio fossimo costretti a trovare un corrispettivo nel cinema occidentale, probabilmente estrarremmo dal cilindro il nome di Jean-Luc Godard. E quella disperata corsa finale, in cui finalmente i due ragazzi possono dimostrarsi reciprocamente il loro amore, non è forse la miglior rilettura e mistificazione della mitologica conclusione di Fino all’ultimo respiro? Chissà….

Note
1. Tousatsu combina i termini kanji che stanno per “rubare” e “fotografare/filmare”.
2. A proposito dell’utilizzo del termine gaijin vi consigliamo di scoprire ciò che di illuminante scrive Julian Cope in Japrocksampler– edizione italiana Arcana.
3. Tra gli ultimi lavori consigliamo di recuperare quantomeno Noriko’s Dinner Table e Strange Circus.
4. Il termine è da intendere nella sua accezione etimologica, vale a dire “accurato nel procedere, nel giudicare”.

Recensione: quinlan.it

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By Anam

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